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92 il baretti

A quelli che vanno in giro predicando a van.

vora il ritorno allo tradizioni la lettura di Pane t vino potrà giovare, e persuaderli forse che le schiavitù metriche ritmiche e sintattiche, se por sé stesse non recano danno alcuno ad una sincera ispirazione, non bastan però da sole a costituirla. Non c’ò cho un criterio di distinzione, quello cho il Maestro illustre ci ha insegnato:

poesia c non poesia. Nella difficoltà tuttavia della scelta farraginosa taluni minori indizi possono, non dico metterci sulla via buona, ma aiutarci a trovarla: e sopratutto, oggi che ognuno esce in lizza facendo se ò possibile molto chiasso, un tono di signorile ritrosia o di schifiltosa riservatezza.

Ho qu»*fra i molti un altro libro di poesie — gli Ossi di seppia di Eugenio Montale — cho Pioro Gobetti, il quale se n’era fatto editore, mi donò un giorno, raccomandandomelo con parole sue di lode. E a me piace assai per il tono di severa difficoltà o di consapevole rinuncia cho l’autore ha saputo raggiungere quasi sempre.

Non voglio già dire cho queste poesie sian tutto perfette: credo anzi che assai poche arrivino a toccare quella serona armonia che ò noi voti del lettore e fors’anche del poeta. Ma sempro si ha l’irapressione di trovarsi di fronte ad un lavoro attento o tormentato, che non s’appaga mai di facili ritrovati nò accetta modi accomodanti e frettolosi.

Tanta è la consapevolezza critica che da ogni pagina di questo libretto trapela, che le liriche (scritte tra il ‘916 e il ’24 e date, come ci avverte l’autore, in ordine non cronologico) a me paion disposte secondo una legge ideale progressiva ed ascendente, quolla che al critico appunto spetterebbe con fatica ritrovare. Il quale invece si lascia prender volentieri per mano dal poeta, che sapientemente lo conduco.

Come le forme metriche tradizionali possan essere adoperato dal Montale, non dico con la aderenza facile o franca degli antichi, ma insomma senz’ombra di profanazione, lo si vode subito in un primo gruppo di poesie, quelle «tesse che han dato il titolo a tutto il libro: sensazioni f ugge voli di cose e di paesi, chiamate a rispecchiare la desolata ed immobile esperienza intima del poeta. Siam ben lontani qui dai paesaggi di Papini estrinsecamente riaccostati ad una interpretazione concettuale, che si sviluppa ad essi parallela senza poterviai mai adeguare:

qui certo gli spunti naturali dell’ispirazione noscon già ricinti della sognante atmosfera che in essi si riflette. Tuttavia pare che spesso l’equilibrio poetico si regga soltanto sulla perizia del verseggiatore, che abilmente attenua le discordanze e nasconde lo lacune dei passaggi più rischiosi. Così le liricho che incominciano» Meriggiare pallido e assorto», «Gloria del disteso mezzogiorno», «Il canneto rispunta i Buoi cimelli», «Valmorbia», e che pure contengono versi assai bolli, ci lasciano in parte delusi. E talora anche, come nelle liriche «Spesso il male di vivere» e «Forso un mattino», o anche nell’epigramma a Camillo Sbai’baro, l’abilità del poeta è troppo compiaciuta e leccata. Ma già nell’ultimo di questi «ossi di seppia», che pur non ò do’ migliori, appare la tendenza del Montale a rompere le forme nelle quali s’era dap prima chiuso, in cerca d’una più ampia o musicale, sebben contenuta libertà:

Sul muro grafito cho adombra i sedili rari l’arco del cielo apj>are finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’prse impetuoso nelle vene del mondo; in un riposo freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine e la muraglia c l’usata strada.

Nel futuro che s’apre le mattine Bono ancorato come barche in rada.

L’ansia d’una musicale libertà penetra un altro gruppo di queste poesie, fino a sgretolarle o quasi a dissolvere ogni loro armonia. E qui piace considerare, per esempio, «Mediterraneo > o a L’agave su lo scoglio» quasi abbozzi o tentativi falliti sulla via d’una raramente toccata felicità. Non credo, come altri ha detto, che qui il lettore sia disturbato dalla volontà che ò nel |>oota d’assumere la sua terra e il suo mare a specchio e simbolo della sua vivente esperienza:

mi paro cho si tratti più semplicemente dell’ondeggiare incerto dello scrittore, fuor delle forme chiù ’ dei poemi più brevi insufficienti a contenere la musica nuova, verso un tono lirico c metrico non ancora o solo a tratti raggiunto.

Talora, in questi componimenti, la compagine metrica si sfalda c si sfascia a tal punto che qua c là affiora, insostenfbile, la prosa più piatta ed approssimativa («la mente cho decide o si determina», «si vestivano di nomi — le cose, il nostro mondo aveva un contro»). Senza diro che questo vizio ò troppo raro nel Montale perchè motta conto d’insistorvi, d’altra parte in poesio, come «Fine dell’infanzia, «Crisalide», ci arrestano già di tanto in tanto serio di versi quasi perfetti:

Pure rolline chiudevano d’intorno marina e case, ulivi le vestivano qua o là disseminati come greggi, o tenui -omo un respiro dolla term od il fumo di un casale cho veleggi la faccia candente dal cielo.

E il flutto che si scopro oltre le sbarro come ci parla a volte di salvezza; Como può sorgere agile l’illusione, e sciogliere i suoi fumi.

Vanno a spiro sul mare, ora si fondono sull’orizzonte in foggia di golottc.

Spicca una d’esse un volo sonza rombo, Tacque di piombo come alcione profugo rade. Il sole s’immerge nello nubi, Toro di febbre, trepido, si chiude...

L’ansia del cauto che in queste liriche urge o trema, sebbene appaia più spesso eloquenza cho poesia, ritrova la sua libertà musicale sonora o fluente sopratutto in due componimenti.

«Riviere», che molti giustamente hanno lodato o «Casa sul mare», che merita lodi fors’anche più alte o sincore. Qui tra la natura descritta CHARLIE La perfezione della Febbre dell’uro non maraviglia: appar naturale che Chaplin liberato man mano il suo giuoco da corti impacci ci si offra in quella intoruzza di pure doti che gli si riconosceva assolutamente e che si attendeva, sicuri, di veder così svilupparsi e fiorire. Questo equivarrebbe a dire che non ha mutato maniora, so maniera non comportasse correntcnieute il significato di ripetizione. Ma Chaplin da quel raro artista che ò, ha istintivamente un troppo preciso senso delle sue facoltà di espressione, del suo linguaggio, per non rinnovarsi non altrimenti che nei limiti di queste possibilità. Il progresso graduale della sua arte è in profondità:

ci vedo la sicurezza vegetale della radice che non tanto s’attacca alla zolla buona quanto la penetra tutta coi suoi tentacoli, ne assorbe coi più delicati organi i succhi per trasfondersi in linfa e, alimentando, esprimersi in pianta fiorente o fruttifera. Arte sommamente naturale e di coltura, a un tempo. If continuo compcnctrarsi del reale e del fantastico, qxiesta pesantezza e aderonza al suolo o quelle improvvise liberazioni e quei voli, questa miseria dell’uomo solo, che le animali necessità di sostentamento fan vile, bugiardo, ladro e quolla vena d’amore che rampollandogli dentro tratto tratto lo trasforma subitamente in paladino della giustizia ed eroe genoroso, tutta questa figura dell’uomo Chariot la rappresenta nell’atto di farsi. Un essere ingenuo iu etti costretti Arielo c Gabbano lottano, e or cedo all’uno ora all’altro secondo l’impulso più o meno violento di un d’essi; in loro balia; e che non conosce nò fòro nè se stesso, ma soltanto un vagheggiamento di vivere il meglio che sia possibile, un meglio pratico, spicciolo, così, ad orecchio fuor d’ogni legge.

Ogni capitolo della vita di Chariot ce lo dimostra impigliato in un imbroglio che non ha saputo eludere o anzi è stato talvolta proprio lui più o meno inconsciamente a far nascere. C’è un formicaio in cui uno dei suoi ingombranti piedi incespica, o un vespaio contro cui va a finire un mulinello della sua cannuccia: ma c’è anche spesso una pagnotta troppo insistentemente richiesta dal suo ventre affioscito por non allungar la mano — o, peggio, una certa arsura che solo un bicchierino di gin potrà calmare, se il barman, vigile mostro che soltanto una moneta placa, si volgerà un momento dist.ratto da una vezzosa cliente.

Molto dell’arte di Chariot, sta nel gioco di cavarsela (Chariot galeotto s’intitola in Franeia. Chariot s’évade). Da un minimo avvenimento trarre le più inattese conseguenze e che si dimostrano essere le sole possibili. Il giorno che si è irretito senza scampo, gli sembra, non sapendo a che santo votarsi, si sdraia per terra e fa il morto Qualcuno difalti lo raccoglie, lo riscalda, e sfama e disseta (Non bisognerà tuttavia cho lo sfrutti questo espediente, lui che, parrebbe, ci tiene di molto a vivere: potrebbe succedergli un giorno di star fresco). Si starà a vedero ora che il più recente capitolo della sua vita si c concluso colTarricchimento favoloso coronato dal sentimentale fidanzamento, cho gli potrà capitare: 3e pclliccie, sigari e champagne e tutto quel cho di superfluo Toro gli ha acquisito — pensato, a lui, povero diavolo, e l’indipéndonza c la considerazione! — con so pram mercato il disinteressato cuore dolla fanciulla amata noi tempi di miseria — se tutto ciò, dico, non soffocherà quei certi moti in lui di carità pura, quasiché fosse soltanto la miseria a suscitarli, se di tali soddisfazioni si satollerà da buon filisteo, o se a traverso la sazietà non prenderanno a irritarlo ancora una fame o una sete misteriose, e trascorrendo daccapo come un bambino dal riso nllo sgomento non ripiglierà a saltabeccare ingenuamente, attonito e incompreso per «il gran deserto d’uomini», come prima, come sempre, irrimedia, bilmente solo.

Sia «tra le case aggiunte a case» o per «fist rado che sboccano nello strade» delle gran città griiio - sia per un sentiero fiorito nella gloria di maggio. Chariot lo troviamo sempre solo. Gli manca l’educazione famigliare di Robinson, nè ha il capo infardilo di romanzi come Don Chisciotte per mettersi a vivere incarnando miti moralistici e cavallereschi. 1 suoi miti, lo sappiamo, nascono dallo più triviali necessità; la o i sentimenti del poeta non v’è salto o distacco alcuno, ma gli uni trapassano o si rivorsan nell’altra senza Bforzo, disfacendola in una luco melanconica e trasognata..Inutile sarobbo citaro, o d’altronde la scolta è difficile. Ma forso ò altrettanto inutile questo mio commonto:

perchè su queste, o su tutto lo poesie dol Montale, ha già fatto osservazioni troppo giusto od affettuoso un nostro comune amico, Sorgio Solmi, in una sua bella recensione nel Quindicinale di Milano. Ed io ti consiglio, mio carissimo Mario, a ricercare quelle pagine, se non lo hai visto ancora. Anche per ristorarti della noia cho senza dubbio t’avrà procurato questa troppo lunga Icttora dol tuo SILVESTRO GALLICO.

CHAPLIN sua morale si fonda massimamente su di un salutare terrore del policemen; i suoi costumi si ispirano a quel che i casuali incontri coi suoi simili gli hanno insegnato. E qui si appalesa un indubbio istinto di signore in questo Michelaccio, o piuttosto di dandy. N’è prova il suo vestito c la prcoccupaziono di galanteria nei gesti: come si cava i guanti, nou importa se a buchi, come apre il portasigarette — dico la scatola oi sardine clic tieno alla seconda saccoccia posteriore e donde con cura estrema estrae una cicca. Questa raffinata esigenza di un modo di vivere civile, Chariot dove averla specialmente alimentata traendo esempio e insegnamenti a teatro o al cinematografo le rade volte che ci ha messo il naso, o noi restaurants frequentati più o mono a seconda dello ’disponibilità finanziario (Ricordate quella colazione che tenta di scroccare colla moneta scivolata di mano al vicino di tavola e che dopo un precipitar di peripezie ai rivela falsa?) Nei suoi atteggiamenti ritrovate il primo attor giovane e il tenore:

stilizzazione di uno Correttezza assoluta, di una freddezza caricata. Perchè, non ha da piacere a nessuno;.una eleganza gratuita, che niuno osserva, anche perchè sono lo sue intcnzioni massimamente a sostenerla, anzi diciamo pure a fingerla; questo straccione passeggia per le vio rivestito della’ pomposa nobiltà del solitario.

Per un pezzo fuor che padroni, complici, policemen non frequenta nè conosce; la sua parte è quella del l’inseguito. Tutti conoscono le sue fughe così indiavolate e pur così precise di tempo.

Ma un giorno avviene che un involto di panni gli capita tra i piedi. E’ tra le ammirevoli scene di Chariot. Lo ai vede avanzare per un budello di strada tra le case alte, dignitoso e padrone dol mondo, piedi divaricati come di consueto, passettini a molla, una mano al fianco, dall’altra la cannuccia maneggiata con disinvoltura.

Si approssima fin in primo piano e colla cura che ho già detto, si «yiva dito per dito i guanti a brandelli e sta per mettersi delicatamonte in bocca la cicca prescelta da’!

scatola di sardelle... Paf! dall’alto gli precipita addosso un rovescio d’immondizie. Niente. Che può toccarlo nella sua impassibilità? Una scrollatina di testa e di spalle, una apolveratina addosso collu punta delle dita, uno sguardo di sprezzo distante di sotto in su e starebbe per proseguire la passeggiata se da un involto ai suoi piedi non udisse uscire un gemito e un moto di brai.cine e gambuccio non apparisse fra le pieghe... Allora Chariot ha una mossa unica, indimenticabile; leva di nuovo il capo in alto.

E’ un attimo: questo stupore di Chariot cho si esprimo col lasciare solo indovinare con un moto del capo l’assurdità del suo pensiero cho anche questo puj>o gli piovve addosso non altrimenti delle immondizie, di lassù, da un Ciclo anonimo, è di una delicatezza incomparabilo.

Da questo momento incomincia la vita nuova di Chariot. Prima, farà di tutto per liberarsi dalla creaturina che la Provvidenza gli ha messo tra i piedi. Invano. E poi — o com’è fatto un bimbo?

Si siede sull’orlo di un marciapiede, leva in alto il fantolino reggendolo sotto alle ascelle c quello ride... Ah! cho dolcezza di sorriso aperto di tutti i denti su questo viso di scroccone svergognatodue risa che si rispondono. Chariot si scopro un nuore paterno, accoglie il piccino nella stamberga, lo nutro, lo alleva, lo cresco furilo e delicato ad un tempo. Ma qual più deve all’altro il Kid a lui, o lui al Kid che gli lm insegnato a dimenticarsi tutto in un altro? Si rammenti il distacco lacerante, e quel mirabile sogno di Chariot affranto sui gradini dell’uscio:

quella trasfigurazione del reale in un Paradiso donde il Diavolo però non è bandito, sì che la felicità raggiunta s’inquina, il dramma scoppia tra le ali degli angeli in blusa, o anche un colpo di rivoltella jsirte che rompo a mezzo il volo di Chariot e lo atterra p-esantemento.

Ma nel Kid era l’impaccio quel che tra il moraleggiante e il lacrimoso comporva la trama goneralo della vicenda e a cui Chaplin era estraneo. Nella Febbre dell’Oro Chaplin di nuovo signore assoluto, autore ed attore, realizza un’opera che può dirsi perfetta. La più segreta psicologia volta in termini strettamente realistici, ma su di un piuno di fantasia pura.

Chariot dove aver sompro, seppur vagamente, sognato l’Eldorado. Un giorno si Ioga quattro arnesi in sj>alla, un sacco di juta gli fa da pellegrina: così bardato parte por TAlaska o subito lo vediamo perderò l’equilibrio o sdrucciolare per un pendio nevoso. In fondo, gli s’apre dinanzi la pianura bianca sconfinata: ci s’incammina. Più solo di cosi...

Questo toma iniziale della solitudine, il noto motivo saltabcccanto, come di oboo nello spazio atono, seguita continuamente a snodarsi, sviluppandosi via via in variazioni, attraverso tutto la Febbre. dell’Oro, finché si perdo, o non ’lo si distinguo più, nel gran finale obbligato alla Rossini. E le variazioni burlesche, anzi farsesche, rivelano subito al buon intenditore questo segreto tema ora disperatamente secco e nervoso, ora di una dolcezza lacerante? Alludo specialmente ai vari c succssivi incontri mancati, trucco vecchio quanto la farsa. In quei momonli vediamo braccia tendersi, annaspare a vuoto, o so stringono alcunché c’ò sbaglio. Il qui pro qua da ridicolo si fa patetico. La commedia, secondo il dichiarato proposito di Chaplin, non è qui che l’immagino negativa dolla tragedia.

E’ poi proprio d’oro che Chariot è andato in cerca nell’Alaskat Lui almeno, ne ò convinto.

S’immaginava, s’intende, come tutti del resto, cho ’bastasse zappare o riempirsi le tasche. E invece subito lo ghermisco il gelo collo tormenta, la famo lo tortura, e gl’incombono le allucinazioni di un altro affamato cho invano tenta di calmare coll’offrirgli una delle sue prodi, giose ciabatte cucinate o servite a mò di pesce.

Sicché tornato il sole a splenderò sul mondo, Chariot pensa che per far quattrini, pochi ma buoni, è più spiccio impegnare gli utensili al prossimo villaggio. E poi che vivere, a ufo è pur sempre una bellissima cosa: ci pensa più a far fortuna ora che ha trovato chi gli affida in custodia una casetta? Una stanza sola, ma comoda, tepida, provvista da tutto: insomma un tetto un letto e di che sfamarsi. Ha mai avute tanto Chariot? Che un domani stia maturando non ci pensa neppure. Ma che qualcosa gli manchi lo prova confusamente’la prima sera che si avventura tra la folla del saloon. Comparo Georgia:

o Chariot sente cho Georgia gli manca, che non ha filai corcato che Giorgia, — Georgia, naufragata chissà di dovo tra i cercatori d’oro e che pur passando di braccia in braccia e non solo tra i giri di valzer, ai riconosce ogni giorno più infelice e cerca, perchè ci crede, l’amore.

Anche Chariot ci crede. So foeso capace di rifletterò — Dio lo guardi I — scoprirebbe di essere sempre stato innamorato: poiché quella che adesso è lì accanto a lui, o l’ignora mentre egli la guarda in tralice e annusa corno un fiore fragrante ma troppo prezioso por non essere intangibile, è la fanciulla della copertina dei magazines illustrati, la eterna Gibson girl, non importa se qui veste il gonnellino da ballerina, la si immagina alla finestra di un cottage fiorito cho sorride e promette carezze e baci: la felicità.

Tutto e nulla attende da questa donna il candido Chariot; sicché quando per nn ripicco, di punto in bianco, Georgia quella prima sera lo invita lei a ballare, egli non dubita che il suo amore sia corrisposto immediatamente. Con quanto pomposo rispetto, con qiianta dignità di cavaliere prescelto le cinge la vita! Gli parrebbe offesa stringerla a sé in pubblico.

Di qui comincia il malinteso sentimentale di Chariot, che perseguirà il suo idealo fatto carne attraverso alternative di speranza o sconforto, senza mai rivoltarsi contro chi gli sorride o poi dimentica, ma sonza mai capire bene quel che succede: mentre a Georgia non parrà mai possibile di pigliar sul serio — a lei che cerca un uomo — un simile spasimante che ha l’apparenza di un fantoccio soltanto. E quel che più fa tristo Chariot è la dolcezza dei suoi sogni.

Rasta a farci immaginare come egli viva famieliarmente coi fantasmi del suo desiderio, il sogno’della notte di Nntnlc, quando sulla tavola apparecchiata in onore di Georgia e delle sue umiche che gli si sono invitate a cena ed ora mancano al convito, s’addormenta come un bimbo, o se le sogna attorno in corona non £ià allcttanti fanciulle-fiori, ma, fresche e dolcemente an nervato pome arbusti, je.unes fille.s en fi ears.

Georgia è il segreto polo magnetico di questa ultima opera di Chaplin; come il Kid lo era stato ma in un modo molto più segreto di quel che l’evidenza del titolo permettesse a tutta prima d’intendere. Tutto il Clownesco o, più precisamente, per dirla cogTinglési: the clowning — serve a Chaplin, anzi gli è necessario per ragioni di equilibrio, di oconomia. E’ la precisione degli esercizi di superficie che gli permette di pescare così profondo coi suoi tuffi.

Ogni perla che riporta a galla la scopre vincendo una partita serrata col caso. Ha un bclTasserirò che tutto in lui si riduce a quel che chiama istinto drammatico. Così perfettamente lo è andato addestrando da giungere ad un’assoluta scioltezza e indipendenza nel suo doppio gioco fuori e sott’acqua.

Chaplin può perciò lasciar credere che la Feb.

lire dell’ora sia un titolo adeguato e abbandouarsi alla conclusione nuziale del happy ever after. Quel cho conta e rimano insoluto, e anzi solo così può durare, è il gorgo di tenerezza che unisce Chariot, a Georgia <• ad un tompo no lo separa- il tema della solitudine strùggente che si alimenta di sogno. Oreste.

e “La Febbre dell’Oro