Pagina:Il Baretti - Anno III, n. 3, Torino, 1926.djvu/4

82 il baretti

tengono il popolo fuori del mondo e del reale.

Identificano realtà e forza, vita e individualità, pensiero ed attività economica, pongono l’esigenza di far scaturire dal basso un’affermazione autonoma che allo zarismo si opponga e non si limiti alle dichiarazioni di principio dell’Intelligenza- Essi sanno che le idee non possono nascere da cervelli isolati, che la filosofia sorge dalla storia, che le grandi lotte politiche presuppongono coscienza di intercsLa morte di Era giunto il giorno 3. Venne da noi verso le sei del pomeriggio. Un poco stanco del viaggio, un poco stordito dal ritmo.di Parigi ma, come sempre, con una grande chiarità negli occhi ed un fresco sorriso. Non ci parve ammalato:

un poco più esile forse c più fragile, ma non ammalato. E poi, quando egli parlava, una forza così serena e così salda era nelle sue parole, un’acutezza così precisa e così fiera reggeva le sue frasi che ogni impressione di debolezza c di caducità era bandita in chi l’ascoltava. E parlò molto. Animandosi, dando vita ai suoi sogni ed ai suoi programmi di avvenire, precisamente e senza eccitazione, come guidato in sicurezza dalla sua fiamma interiore. Voleva fondare in Francia una casa di edizioni: sopratutto libri politici che portassero alla luce i problemi spirituali del nostro tempo. Aveva una lista di nomi, un piano già tracciato di attività.

In seguito qualche volume letterario, qualche traduzione di libri italiani ignoti oltr’alpe:

ne rammentammo qualcuno- egli aveva per tutti un motto arguto che ne riassumeva la essenza ed il valore.

E poi (e qui gli occhi gli risero) voleva far risorgere «Rivoluzione Liberale».

E’ un segreto — mi disse — non ne parli ancora, ma conto su di lei. E bisogna non perdere tempo.

E mi spiegò a lungo il suo concetto. Era necessario portare nella lotta politica un elemento intellettuale c culturale che al disopra della polemica quotidiana e violenta, elevasse le ragioni ideali del nostro dissenso.

Quest’affermazione compiuta in purità d’intenzioni cd in nome di principii alti e sereni avrebbe giovato al trionfa delle nostre idee molto di più c sopratutto molto meglio di ogni attività astiosa e partigiana.

Le difficoltà dell’impresa non lo spaventavano: Rivoluzione Liberale doveva vedere la luce in francese, allargarsi c migliorarsi, rappresentare Tarma di difesa delle concezioni puramente liberali in Europa, additarne c combatterne tutti i traviamenti c tutte le storture..Sarà scritta in cattivo francese da principio mi aggiunse — ma questa sarà una grazia.

Poi impareremo.

Trascorse con noi tutta la serata e si discusse di tante cose. Di sè parlava poco sempre e quella sera non parlò affatto. Non ci disse della sua malattia recente, non accennò neppure all’infermità del suo cuore.

Andò via poco dopo le undici promettendoci di tornar presto. Per due giorni non lo vedemmo. Al ferzo mi giunse un breve biglietto.

Mi diceva di essere infermo e chiedeva a mio fratello studente in medicina di andarlo a vedere.

Mio fratello andò subito: io poco dopo. Abitava in un modesto albergherò di tue des Ecoles. I/> trovai a letto che scherzava con mio fratello e si lasciava pregare prima di prendere le medicine e le pozioni che ingombravano il tavolo. Una bronchite doppia, aveva sentenziato il medico, complicata da un po’ di depressione cardiaca.

Era stanco ed un poco stordito: sentiva come una sonnolenza greve.

La conversazione lo affaticava: parlammo poco c soltanto della sua malattia. Era poco convinto dei rimedi c delle medicine: si lamentava sorridendo dcH’applicazionc delle coppelle che mio fratello già gli aveva fatta e dei brodini vegetali che gli aveva propinati.

La mattina seguente fu visitato dal dottor Basch, il quale fu piuttosto preoccupato dello stato del cuore e consigliò il trasporto in una clinica.

Ma questo gli ripugnava: l’idea della clinica e sopratutto il doversi considerare gravemente infermo lo infastidiva c, senza turbarlo, lo addolorava.

si, senso di responsabilità, individualismo economico.

Essi non pensano di educare il popolo rivelandogli In verità’: lavorano perchè il |>opolo intenda le condizioni della libertà, perchè si senta prplctariato e responsabile dei suoi destini. Nella lotta contro lo czarismo e contro il capitalismo essi hanno data una necessità e una linea alla rivoluzione.

(da Paradosso dello Spirito russo).

Piero Gobetti Piero Gobetti Non osammo insistere, egli pareva più sollevato, diceva sempre di essere molto stanco, ma di non sentirsi male. Tossiva c la tosse lo spossava. C’era molta stanchezza sul sua volto, molta stanchezza e molto abbandono.

Sofferenza non ne appariva e nemmeno ansia.

Solo una spossatezza grande.

Abitava una cameretta senz’aria, senza luce ed anche poco pulita: mostrò il desiderio di cambiare albergo. Il medico glie lo consentì cd allora, dopo averlo ben coperto cd imbaccucato, mio fratello lo condusse in una bella stanza di un piccolo hotel della vicina rue de Vaugirard.

Si sentì meglio. Cominciò a sfogliare i libri che gli avevo portati. In quei giorni a me non apparve mai la gravità del suo male: mio fratello era meno tranquillo, cd i due medici consigliavano sempre prudenza grande e si mostravano assai preoccupati della sua insufficienza cardiaca.

Ma egli sembrava in molto migliori condizioni: parlammo di libri.

Gli avevo dato a leggere la «Vita di San Francesco», di Chesterton. Gli era piaciuta.

Con voce piana me ne dettagliava i meriti:

E’ un libro moderno diceva e forse c’è più comprensione in questo sforzo d’intendere Modernamente una figura lontana da noi nel tempo, che nel trasportare faticosamente la nostra mentalità verso un passalo mal notoMolte cose mi disse c di molte questioni letterarie discorremmo insieme. Ma, come avviene sempre quando una dimestichezza lunga e molta comunione spirituale uniscono c legano due intelletti, quelle nostre conversazioni crano appena accentrate, come basate sulla intuizione reciproca ed io non potrei nè saprei riferirle.

Aveva, a tratti, in quei giorni, momenti d’abbattimento e poi momenti d’eccitazione. E nei suoi discorsi quella sua alterna ineguaglianza appariva. Questo mi dette da pensare. Pareva che egli facesse forza a sè stesso; che dominasse a stento la stanchezza grande che 10 vinceva, per parlare, per dire. E diceva quasi febbrilmente come chi abbia fretta. Ed un poco inquetamente, anche. Principiava la frase come se fosse turbato dal desiderio di pronunziarla presto c poi taceva c socchiudeva gli occhi. Ripeto: se io dovessi dire com’egli mi sia apparso in quei giorni dirci soltanto:

stanco, molto stanco. Altro di quei giorni non so dire. Mio fratello lo assisteva fraternamente e tentava di dare conforto ai suoi inali fisici.

Il giorno 13 egli ebbe una leggera crisi c peggiorò: il cuore non gli reggeva. I medici insistettero per il trasporto in una clinica. Vincemmo facilmente la sua resistenza: non avc.va quasi più volontà c si affidava a noi con un sorriso rassegnato.

Mio fratello lo accompagnò in autolettiga alla Clinique de Paris al Bosco di Boulogne, rue Piccini. E nel tragitto egli ebbe qualche istante di letizia: una chiara giornata allietava Parigi cd egli pronunziò parole quasi gioconde.

Il suo dolce sorriso riapparve sulle sue labbra per poco ed anche motteggiò, su questa sua gita così eccezionale lungo l’Avcnue des Chain psElysécs, mondana c rumorosa.

L’atmosfera pacata della clinica, il candore dell’ambiente cd il silenzio lo quotarono, prostrandolo.

Trascorse molto pianamente la giornata del 14. La mattina del 15 una lieve miglioria lo blandì: la sua volontà di vita era tale (sapemmo dopo) che due volte nella mattinata si alzò dal letto, si vestì alla meglio, si illude di poter guarire subito, di essere guarito.

Alle 9 di sera il cuore principiò a mancargli.

A poco valsero le iniezioni di caffeina.

11 medico di guardia lo assistè amorevolmente.

Alle undici gli fu dato l’ossigeno. Ebbe un’agonia dolce, inconscia: si spense. Non pronunziò che parole vaghe, non soffrì, non spasimò.

Alla mezzanotte e qualche minuto era morto.

Io lo rividi il giorno seguente: non era mutato. Solo sul suo viso era diffusa una pena clic non posso non chiamare infantile: senza i suoi occhiali di sapiente sembrava un bambino addolorato, un fanciullo triste e scontento.

Tale rimase nel gelo della morte finché dopo una lunga veglia lo componemmo nella bara e tale è rimasto nel ricordo di noi che l’abbiamo amato. Vincenzo Nitti.

Parigi - Marzo 1926.

TESTIMONIANZE Amici di Piero Gobetti, dai quali egli fu lontano nei giorni ultimi, avete desiderato che gli amici di Parigi non serbassero gelosamente per sè quei ricordi clic soli hanno di lui, essi cui spettò il triste privilegio degli ultimi colloqui e della muta scorta attraverso le vie a lui note e care della capitale straniera, sino all’alberata isola di Pace del Pére Lachaise.

La venuta a Parigi fu ancora uno di quei suoi arrivi da piccione viaggiatore. Improvvisa, il 4 febbraio, trovai una cartolina con due righe a matita, lasciatami a casa mentre ero assente: «Caro Emery, quando possiamo vederci? Io sono qui per fare roditore, se potrò.

Piero Gobetti». Aggiungeva il suo indirizzo:

d’un piccolo albergo del Quartier Latino, non lontano dal Collège de France..Gli diedi un appuntamento per il giorno dopo. Fu l’ultima volta che lo vidi in piedi. Ero- passato, senza vederlo alla prima, dinanzi alla terrazza di quel caffè del Faubourg St. Germain (uno dei jiochi — osservò — dove il caffè fosse buono), ed egli, a capo scoperto, mi rincorreva ridendo. Con la consueta rapida semplicità, mi mise al corrente delle sue intenzioni pratiche: stabilirsi editore a Parigi, pubblicando anzitutto libri d’interesse politico curoiieo, per ora soltanto in francese. Voleva assicurarsi qualche collaborazione di prim’ordine per una buona affermazione iniziale. Mi chiese indicazioni pratiche sul modo di trovare rapidamente un locale. Mi disse — ciò che io ignorava — che il cardiopalnto gli vietava di muoversi troppo, di fare le scale; ma non se ne mostrava preoccupato e contava sbrigare molte faccende per corrispondenza e per telefono. Cercava anche casa per sè e per la sua piccola famiglia.

Per due giorni non ebbi più sue notizie.

L’8, un suo biglietto mi annunciava una visita probabile per la sera stessa. Aggiungeva, per indicarmi come aveva passati i giorni precedenti: u In questi giorni non sono che un uomo alla ricerca di una casa». Ma niente visita la sera, e il giorno dopo la spiegazione in un altro breve biglietto: «... non sono venuto perchè sono a letto con la febbre. Se tu venissi domani pomeriggio, martedì, dopo le le 16, ti vorrei chiedere alcune cose». Lo trovai, il 9, mentre un medico, condotto a lui da Federico Nitti, lo stava esaminando. Più che la febbre e una bronchite diffusa, ciò che impensieriva era la crisi affannosa del suo cuore malato. Il medico consigliava dapprima il trasporto immediato in una clinica, ma, dinanzi alla riluttanza del malato, finì per dire scherzosamente:

«Le do ventiquattr’orc di tempo».

I,a pazienza serena con la quale Gobetti sopportò le penose giornate che seguirono ci permise di parlare sempre con lui scherzosamente del suo male, anche quando le nostre apprensioni erano più vive. Ed egli ricambiava lo scherzo affettuoso: «Adesso, che ti ho sotto mano — disse minacciando la mia ben nota pigrizia — ti farò lavorare per il Garetti!».

Lo vegliammo tutta la notte, una triste notte di pioggia, l’uno dopo l’altro: egli respirava affannosamente, tossiva, si lamentava in un sopore intermittente. All’alba era assai più tranquillo, c i due medici che lo curavano permisero che rimanesse all’albergo, concordi anche nel ritenere che, superato in una decina di giorni il periodo acuto, una cura a lunga scadenza, forse in un clima migliore, avrebbe incuto rimettere Tinfcrmo in condizioni sodisfacenti.

Egli pensava sempre ad una ripresa prossima della sua attività. Si occupava ancora del l’alloggio che cercava j>er sè c per i suoi.

Ma tre giorni dopo il suo stato peggiorò nuovamente.

Perchè avesse una stanza più comoda c ampia, era stato trasportato in un ttanquillo albergo di fronte al Senato: la campanella dell’orologio del Lussemburgo scandiva le ore e i quarti. La compagnia degli attiici, di giorno e di notte, era per lo più silenziosa.

Parlare affaticava il malato, spesso assopito, clic deplorava di essere troppo stanco per poter leggere a lungo.

Tuttavia il giorno dopo,, domenica, egli era, più sollevato, per quanto molto depresso dalla febbre, dall’affanuo e dalla dieta. I medici curanti avevano ritenuto ad ogni modo miglior partito, prolungandosi la malattia, farlo entrare in una clinica, c così era stato fatto la vigilia. Fu per noi tutti una maggiore tranquillità vedergli assicurata l’assistenza di medici c d’infermieri in qualsiasi momento del giorno e della notte. Nel |>omeriggio di domenica 14 gli |>ortai il primo numero del Barelli no npiù diretto da lui. Egli non lo nveva ancora veduto, lo sfogliò con piacere, osservandone Timpaginazionc. Fu l’ultimo atteggiamento di lui vivo, che doveva rimanermi negli occhi.

Lunedì sera, Prezzolini mi avvertiva che lo stato generale del nostro malato gli era apparso, nella giornata, allarmante. Appena libero del mio lavoro — poco prima delle 23 — corsi alla clinica. Non era più ora permessa ai visitatori, ma mi fu detto che lo stato dell’infermo «della camera numero 30» non appariva allarmante. Mi ritirai, assicurato, per tornare il giorno dopo. Ceravamo dati convegno, nel pomeriggio, varii amici, presso di lui.

Un’ora dopo ch’ero stato per l’ultima volta alla clinica, una crisi precipitosa spezzava il cuore di Piero Gobetti.

Si è detto clic egli era morto nell’abbandono, senza che nessuno se ne accorgesse.

No. Mi duole insistere su penosi particolari, ma è necessario ristabilire le cose nella loro verità. La fine di Piero Gobetti non ha bisogno di alcuna frangia romanzesca che ne accresca la cruedltà. Mancò — è vero — più che a lui, il quale, spossato, probabilmente non avrebbe nemmeno avvertita la presenza di alcuno, mancò a noi il triste conforto di essergli accanto nell’ora suprema. Non mancò l’assistenza medica, nè ogni tentativo per superare il momento culminante della crisi cardiaca.

Accorrere in tempo, data la rapidità estrema della catastrofe, non ci sarebbe stato ad ogni modo possibile. Purtroppo accadde che non fossimo informati subito della fine, e per parecchie ore, dopo tante fraterne cure,, l’amico nostro fu solo sul suo letto di morte.

Questa fu una pena angosciosa aggiunta al nostro dolore. Ma Piero Gobetti non visse abbandonato i suoi ultimi giorni. Lo circondòla compagnia affettuosa di tutti gli amici di qui. Noi abbiamo veduti i suoi occhi vivi e chiari, che parlavano anche nei lunghi silenzi imposti dalla sua crescente stanchezza, e attestiamo che essi, non mai smarriti, incontrarono ogni giorno sguardi amici, pronti a rispondere col muto incoraggiamento d’una presenza fedele.

Parigi - marzo 1926.

Luigi Emf.hy.

Bisogna lottare con noi ad ogni istante per non perdere neppure un’occasione di agire, per martellare su tutto e su tutti, Per costruire la nostra vita. Mi accorgo che la mia concezione della vita è in contrasto con troppi, quasi con tutti. E questo mi incoraggia anche più a non essere indulgente verso me stesso...

(da una lettera, 1919).

Bisogna che noi creiamo ogni giorno una conquista nuova c, poiché conquistare non è che allargare i propri limiti, bisogna che noi arriviamo a comprendere sempre più l’immanenza dello spirito, a vedere in ogni fatto, in ogni conseguenza una parte della nostra anima stessa.

Con questa passione profonda — che non diventa abitudine, e neppure azione inconsulta, ma resta normalità intensa, conquista progressiva e non intermittente 0 fra pimentarla — non si concilia la freddezza e la indifferenza che pervade e irrigidisce la vita d’oggi.

Tutta la vita moderna i estenuata da questa spaventosa anemia. Ma noi ci ribelliamo. Riportiamo a questo punto la distinzione tra moralità c immoralità. Non può essere morale chi è indifferente. L’onestà consiste nell’avere idee c credervi e farne centro e scopo di sò stesso.

(da «Energie Nuove», 1919) PIERO ZANETTI - Direttore responsabile.

Tipografia Sociale - Pinerolo.