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il baretti 77

Il signor Cuenca e il suo successore Racconto di GABRIELE MIRO’ Oro il treno attraversava i campi coltivati della pianura d-Orihucla.- Si vedevano gli steli di canapa alti, densi, scuri, piegati dal vento; le piante d’arancio folte; i sentieri fra i margini verdi; le capanne coi muri di calce e i tetti di stoppia posati su tronchi disuguali, ancora scabri come alberi in vita; i viottoli stretti, e lontana la strada con la verzura odorante; all’ombra di un olmo due mucche macchiate di letame, sdraiate a terra ruminando i teneri steli del mais; le montagne spoglie con lo loro armatura di roccia viva e nuda clic penetra ncH’umido molle dei campi di legumi; un tratto di fiume con un vecchio mulino circondato dalle anitre; una macchia spessa di pioppi neri c di roveti bianchi; un palmizio solitario; un tabernacolo con la sua croce votiva, grande e nera inchiodata sulla sommità; il vapore turchino delle rive bruciate; un largo canale; due contadini, nel costume del posto, intenti a macerare la canapa; piante d’arancio; di nuovo il fiume; e in fondo, al sommo di una collina, il seminario lungo c bianco, coronato di giaggioli. In basso, lungo la costa, comincia la città, dalla quale s’ergono le torri c le cupole chiare, rosse, azzurre, cupe, delle chiese, della cattedrale, dei monasteri; c, a destra, in disparte, posato sulla montagna, oscuro, massiccio, enorme con il campanile quadrato come una torre, la cui cornice pesi sulle spalle di nani mostruosi, le grondaie, gli abbaini, gli occhi di bue, appare il Collegio di Santo Domingo dei Padri Gesuiti.

Sulla campagna, sul fiume e sulla città stcndevasi una nebbia leggera e azzurrina. È veniva dal paesaggio l’odore pesante e caldo di concime e di stalla, l’odore fresco di irrigazione, l’odore acre, fetido dei maceri della canapa, l’odore aspro della canapa secca nelle giarrc coniche.

Siguenza contemplava la sera con angoscia, inalato di tristezza, di una tristezza così amara, così forte che non sembrava soltanto un sentimento provato da lui, ma si manifestava con una realtà propria, estranea a lui, più viva della sua anima; questa tristezza si impersonava in tutto ciò che egli vedeva, perché la campagna, i suoi vapori, i suoi alberi, i monti e il ciclo, tutto era permeato e intessuto di tristezza; la stessa tristezza che l’opprimeva fanciullo, quando indossava l’uniforme di collegiale e usciva colla sua classe, quella dei piccoli, lungo questi sentieri, attendendo il passaggio del treno; un trenodie portandogli tanti ricordi di gioia, rendeva ancor più triste il i>aesaggio e il ritorno al collegio di Santo Domingo.

Allora Siguenza si volse verso un signore, compagno di viaggio, che accompagnava suo figlio per affidarlo come «interno» ai Gesuiti, c gli confidò alcuni suoi ricordi di collegio.

Il signore rinterruppe:

— E voi non vorreste ritornare a quegli anni?

Non credete che sia ricca di sapore la tristezza del fanciullo in collegio? No? Come!

Non vi ricondurreste i vostri figli?

Siguenza disse di no. Questa tristezza è forse piacevole per i grandi; per i piccoli arida e diàccia, senza questo profumo di lontananzaQuando era stato a Santo Domingo, Siguenza aveva invidiato la vita aperta c libera di un fabbro vicino che faceva giungere i suoi canti e il suono del martello sull’incudine attraverso a tutte le finestre, invadendo il silenzio delle sale di studio; aveva invidiato un certo signor Rcbollo, che fabbricava c commerciava il suo cioccolato, e passando innanzi al suo banco, tutti i collegiali si guardavano, assaporando con delizia lo strepito del rullo, c il tepido aroma del cacao; aveva invidiato gli uomini seduti sulla sponda del fiume a fumare e ad osservare le acque correnti; aveva invidiato un cocchiere che andava alla stazione facendo schioccare la frusta come un petardo, lanciando frizzi alle contadine, c quell’uomo per lui era formato come dalla santa emozione di tutti i focolari, perchè sulla sua vetusta vettura giungevano i parenti degli interni. Lo chiamavano «Arrancapinos» soprannome meraviglioso, leggendario, dipinte sullo sportello in fiammanti lettere color cinabro, incorniciatiti una figura simile ad una scimmia che sbuca dal fogliame. E la sera mentre traduceva i quindici versi dell’Eneide segnati con la traccia dcH’unghia, «Arrancapinos» passava gloriosamente come un Esplandian sulle pagine del dizionario c del testo trasformate in una foresta centenaria, profumata, incantata.

— E con questo? diceva il signore. Che ha questo a vedere con la educazione dei fanciulli?

Avete figli? Ah! Voi avete due figlie? ebbene, perdonate, ma io credo che voi le educhiate male. Le educate male? lo ammettete!

Sì. Porse secondo alcuni Siguenza educava male le sue figliuole. Infatti quando si ammalavano egli ricordava di aver parlato talvolta con durezza alle povere piccine per reprimere qualche loro capriccio: allora se ne pentiva e si riprometteva di non farlo più — Questo non sarebbe avvenuto se voi le aveste messe come.interne in un collegio— Interne! Mai!

Il padre del collegiale s’indignò a tal punto che tutta la sua vermiglia figura di proprietario della provincia di Alicante si infiammò.

Essi arrivarono n Orihucln c, nella vettura sino all’albergo, poi durante il pranzo, continuarono a conversare.

Siguenza gli disse:

— Se voi aveste conosciuto il signor Cucuca!

— Chi è questo signore?

-7- Nei collegi «Ivi gesuiti si tratta con il Lei e si chiamano» signore» tutti gli allievi, siano pure giovanissimi. Voi lo sapete. Io entrai a otto anni a Santo Domingo, ed ero stupito di udire tanti «Lei» e tanti «signore»

dalle bocche di questi preti sapienti, mentre a casa mia i domestici mi davano del tu; ma ero ancor più meravigliato che lo dicessero a un marmocchio che stava accanto a me; io portavo pantaloni lunghi c invece il mio vicino li aveva ancora corti, con le calze fin sopra il ginocchio. Era infatti molto più giovane di me: esile, pallido, molto triste, distratto; le sue piccole mani sempre sporche d’inchiostro; le fettuccie dei calzoncini, i legacci delle scarpe sempre slegati c cadenti. Si chiamava Cucnca. Ma naturalmente là si diceva signor Cucnca. «Signor Cucnca, signor Cuenca I»

pronunciava con voce secca, imperativa il Fratello Ispettore. Io guardavo il mio camerata con la stia piccola testa nascosta fra le braccia, incrociate sul banco. E l’ispettore mormorava: «Signor Siguenza; scuota il Signor Cucnca clic dorme». Io lo svegliava. Il signor Cucnca apriva i suoi grandi occhi velati di tristezza e di sonno; mi guardava stupito, si stirava c mi sorrideva perdonandomi- La voce del Fratello tuonava. E il signor Cucnca alzava le spalle c mi chiedeva: «Ma che cosa dice il Fratello?» «Dice di metterti in ginocchio».

«i In ginocchio? E perchè?»

Il Signor Cucnca s’inginocchiava. «Signor Cucnca, signor Cuenca, Ella avrà un cattivo punto in condotta; non si accorge che le sue calze cadono?»

Quasi sempre bisognava che io gliele riaccomodassi erano calze di grossa lana bianca, fatto in casa dalle mani della madre del signor Cuenca; c bisognava che io gliele allacciassi, perchè il signor Cucnca non sapeva. Accanto al Signor Cucnca, mi pareva di essere un uomo grande, un protettore e gli sorridevo paternamente Giunse 1a settimana degli esercizi spirituali.

Bisognava passarla senza parlare, facendo il nostro esame di coscienza, ascoltando i sermoni sul peccato, la morte, l’inferno, il purgatorio, la salute eterna..-. Le finestre della cappella erano, allora, quasi completamente chiuse; l’altare tutto parato di nero. Quando cantavamo «Perdono... o Signore!» gridavamo disperatamente, non solo perchè imploravamo la grazia con un ardore impetuoso, ma per vendicarci del nostro silenzio... Ili signor Cucnca non cantava; chiudeva gli occhi c chinava la sua piccola testa, appoggiandola sulla mia spalla sinistra. Io l’ammonivo: «Bada che saremo puniti entrambi I» E il signor Cuenca sorrideva guardandomi. Era pallidissimo, con due piccole pieghe accànto alle labbra, come se stesse per singhiozzare, c mormorava: «La fronte mi duole sempre più!».

L’ultimo giorno degli esercizi, al posto del Signor Cucnca un altro fanciullo grosso, rubicondo, tranquillo e molto divoto si pose al mio fianco- Gli domandai: «E Cuenca? Sai dov’è Cucnca?». Non mi rispose. Alla ricreazione chiesi al Fratello il permesso di parlargli, ma egli non volle accordarmelo. E quando la settimana di silenzio fu finita, e tutti i collegiali lanciarono il loro primo grido spontaneo, cspansivo, felice, io corsi dall’Ispettore e gli chiesi notizie del signor Cueiica. «Non avete ancora imparato che interrogare è una colpa grave? Non fatelo più», mi disse.

Melanconico c umiliato, mi tenni in disparte pensando al signor Cucnca. Perchè non era con noi questo fanciullo pallido, gracile, dolce c triste, che, sorridendo, mi dava più pena che se piangesse?... Dov’era il mio camerata dai calzoncini color d’oliva e dalle calze bianche, pendenti, rozze, che egli non sapeva tenere allacciate e che imploravano le mani della madre o forse della nutrice del signor Cucnca?

Due giorni doj>o, rientrando dalla prima ricreazione del pomeriggio, non fummo condotti nella sala di studio ma nel dormitorio; ed entrando nelle camere, l’ispettore ordinò: «Uniforme di cerimonia, mantelli e berretti».

Ci vestimmo stupiti. «Dove ci conducevano, così vestiti, di mercoledì?»

Scendemmo nel chiostro. «Signore, che succede?

Che sia arrivato il R- Padre Provinciale?

Sì, sì, deve essere il Padre Provinciale che forse ci accorderà in memoria della sua visita qualche divertimento, o merenda nei campi!.»

E il signor Cucnca che non era con noi! ora che ci saremmo tanto divertiti l ma dov’era il signor Cucnca?

Entrammo nella chiesa. Trasalii per l’angoscia.

Un freddo sudore imperlava i miei capelli e le mie’tempia.

C’era nella navata una bara stretta, bianca, circondata di ceri; e, dentro, molto giallo c molto lungo vidi il povero signor Cucnca che sorrideva a me, a me, lo giuro! e sorrideva come per mostrarmi i suoi piccoli pantaloni lunghi dell’uniforme di cerimonia clic gli avevano messo.

Il padre del collegiale accese un sigaro:

nascosto dal fumo, mormorò tossendo:

— Mancanza di ordino; questo — e sporgendo il mento indicava suo figlio — non ha mai portato scarpe coi legacci, ma scarpe tutte d’un pezzo, con gli elastici e le calzette c i calzoni con le bretelle vero?

Prima traduzione italiana.

G. Mirò è uno dei più originali scrittori spaglinoli della generazione di Avnln e di Gomez de la Sema- E’ unto ad Alicante e la sua arte ha il sapore e la luce della sua terra di Valenza. Opere principali: Figure della Passione del Signore, Il libro di Siguenza,.Vostro padre S. Daniele.

Abbonatevi al Bar etti OPERE B CIANCE Propositi d’eccezione Il Silva, giovane autore, miope c biondo, per poco non stramazzò per il buio della scaletta.

Ma il Piacci lo guidò per quegli ultimi gradini c con un sorrìso:

— Come vede, l’ingresso non è molto comodo.

— • Non imporla. Questo tono dell’ambiente è quasi necessario.

Nel buio freddo c umido sorse la luce rossigna d’una lampadina velata da ragnatele.

A poco a poco si rivelò l’ossatura del teatrino sotterraneo, dal boccascena biaccoso allo squallore delle panche e delle sedie impagliate.

— Di qua si sale al palcoscenico.

Una finestrella livida c salnilrosa rischiarava un corridoio dal quale eran stali ritagliati dei bugigattoli con un’ossatura di travicelli c dei cartoni inchiodati.

— L’impianto della luce ci è costato ottocento lire. Questo ò il camerino della prima attrice.

Una sedia, uno specchietto su di un tavolino, qualche piolo di legno infisso su di un tratto di parete, ricoperto da giornali incollati. In un canto una scopa tutelava un nastro dorato, dei mozziconi dì sigarette e qualche pallottolina di stagnola.

Come giunsero sul palcoscenico un fondale ostentò loro un giardino troppo primaverile sotto la corsa di due nubi sferiche rotolanti su di un cielo al blcu di Prussia. Il Silva s’arretrò un poco verso la ribalta, ma il Piacci lo trattenne da un salto in platea: con quattro passi aveva disceso tutta la scena, s’era sentila sulla nuca l’umida cotonina del velario. Che appapaiiva come una di quelle tende rigonfie che nelle case povere ricoprono gli armadi.

— Il palcoscenico non mi pare troppo vasto...

— azzardò il Silva. Ma il Piacci, ’che finallora s’era un po’ indispettito a non scorgere nel compagno quel cordiale entusiasmo che sarebbe stato doveroso, gli sfoderò quel suo viso corrucciato di quando, nel paterno emporio di mobili, accompagnava qualche cliente povero o restìo!

Si sa. E’ un teatrino. Di filodrammatici.

Glielo ho già detto ieri sera. Da noi, niente lusso niente comodi niente messinscena.

Qui, in questa stamberga, abbiamo recitato L’p-ssalto, Cyrano, L’alba, il giorno e la notte e Amleto. Con successo. Ogni domenica son millequattro, milleseicento d’incasso. E, detratte le spese, tre o quattrocento lire, ogni domenica, son date a un’opera benefica. Se lei vuol proporci modificazioni o ampliamenti con le proposte ci deve procurare i mezzi necessari per attuarle. Ma s’accomodi, chò questo è Pulito.

Gli Porse uno sgabello preso da un canto, di tra il cordame del velario: dove, nelle sere di recita, si rannicchiava, intento alle lampadine della ribalta, il fratellino della prima attrice, segaligna contabile della ditta, che nel Piacci doveva riporre qualche sospirosa speranza, — Vede «— esordì il Silva — nelle mie parole di ieri sera, più che un concreto disegno c’cra il mio desiderio di incitarla a un’opera ardila e dignitosa.

— Ma io desidererei un programma dettagliato e preciso.

Gli offrì una sigaretta e s’apprestò ad ascoltarlo scrutandosi le scarpino di vernice. Nella sua leggera pinguedine, nella sua incipiente calvizie, nel suo naso volgare sotto l’opaca durezza dello sguardo c sopra una bocca ancóra infantile si scorgeva il figlio di commercianti arricchiti che s’era accontentato della licenza tecnica c clic desiderava un’automobile tutta per sè. Il Silva si sentì un po’ scoralo; evitò di guardarlo e riprese animo fissando una quin/a corrosa che sbucava di tra due pilastri.

Vede, Piacci, di quella che potrà essere la nostra opera comune, io ne faccio una questione di repertorio, d’attori e di messinscena.

Loro, io, non li ho mai sentiti a recitare; ma son convinto che bisognerà mutar stile. Lei mi ha dichiarato che ben volentieri si sottoporrebbe ai consigli di un direttore di scena, ma, riguardo a ciò, io sarei costretto a pretendere una disciplina assoluta da lei e da tutti i suoi compagni d’arte.

— Dopo esserci prima messi ben d’accordo.

— Naturalmente. E le dirò che sul problema dell’interpretazione teatrale io non ho ancora delle idee ben mie.

— Ma allora, scusi... — e il Piacci ebbe un sogghigno beffardo.

Mi lasci dire. E’ parecchio che ci penso.

La conosce quella nota del Croce sull’interpretazione teatrale, suggeritagli — Il Croce è un critico drammaticot Il Silva aspirò a lungo una boccata di fumo.

— E’ anche un critico. Considera l’opera dell’interprete simile a quella del traduttore.

— Non capisco.

— Non importa, caro Piacci, son dettagli.

Ma io non posso accettare la soluzione del Croce I.‘Appio fa dell’interpretazione un problema plastico. Mentre il Craig vorrebbe rimettere agli attori l’aulica maschera scenica.

— Pazzie.

— No, son tentativi molto seri, anche se non accettabili. E allora, non avendo ancora risolfo il problema dell’interpretazione, non posso proporle dei’ nuovi cànoni ferrei e più o meno innovatori.

— D’accordo.

— Mi limiterei a imporre una gran sobrietà di toni c d’atteggiamenti, in un’assoluia fusione d’elementi. Intenderei di trasformare il loro teatrino in un teatro d’eccezione, sorretto dalla disciplina e dal sacrificio.

— Siamo dispostissimi a provare tutte le sere. Tranne il sabato.

— Noi avremmo già raggiunto un grande risultato quando fossimo riusciti a eliminare ogni incrostazione di recitato, di tronfio, di retorico, di vaneggiamento. Dire, non recitare o urlare. Studiare e soffrire, mai improvvisare.

— Ma l’abbiamo sempre fallo. Im prima attrice studia persino in ufficio, tra un protocollo e l’altro. Vuol sentirmi noi Cyrano presentazione dei cadetti dì Guascogna?

Ratto il Piacci s’era sfilato il soprabito, se l’era ammantato su di un fianco a guisa di cappa, e, ben piantato sul piede sinistro, aveva teso il braccio destro con un minaccioso indice grassoccio. Da una tasca del soprabito rosea appariva La Gazzetta dello sport.

Ma agli scongiuri del Silva:

— 0 potrei dirle il Saluto italico — e, scrutandolo, si rinfilava lentamente il soprabito.

~ Noi curiamo inolio la pronuncia. Di che regione mi direbbef — Piemontese.

— E invece son quasi lombardo. Vede?...

— Ottimamente. Occorrerà imparare gli artifici del respiro, delle pause: dare un ritmo anche alla battuta più secondaria. L’arte dei silenzi, sopratutto. Un buon attore deve saper adoperare la pausa come un buon scrittore l’a capo.

— Noi poniamo sempre una pausa prima c dopo un’invettiva, una tirata. Anzi, chi deve fare una tirata d’effetto si scosta sempre dagli altri e viene alla ribalta.

Il Silva incominciava a sentirsi tremendamente stanco.

— E il nostro repertori non le basta?

  • — Bisognerebbe un po’ trasformarlo, guardandosi naturalmente da ogni snobismo.

— Per esempio?

— Claudel, Vildrac, Ibsen, Sarment, Strindberg, Pirandello...

— Pirandello?..; — SI, tentare Sei personaggi, Così è — Ma ci sono i diritti d’autore!

— Si pagano.

— Neanche da pensarci.

Il Silva si sentì cliente dinanzi al Piacci mobiliere.

che, reciso, stabiliva l’ultimo prezzo di uno stipo, e che poi tentava un accordo.

— P’nttosto senio. lo terrei il nostro repertorio così com’è — Sardou c Dumas, un po’ di Balaillc e di Bernstein — con in più qualche lavoro inedito, di giovani. Lei non avrebbe...

— No no, per ora no — disse precipitosamente il Silva pensando ai suoi due drammi rinchiusi in un cassetto c al secondo alto del terzo, in gestazione, che non riusciva ad azzeccare.

— lo ho un cugino che scrive. J:a delle cosotte comiche, molto graziose. Finora non ce le ha volute dare. Ma, trattandosi d’un nuovo teatro d eccezione, lei potrebbe anche convincerlo.

Glielo presenterò.

Il Silva s’era alzato, triste e avvilito. Pensò ad Antoine. Al suo secondo atto. Al Vienx Colombier. E gli paivc di scorgere un topo filare in platea tra le sedie impagliate.

Mi spiacc di non poterla accompagnare.

I enga domenica sera: daremo La marcia nuziale.

Spero di trascinarci anche quel mio cugino.

E vedrà che si metteranno e ci metteremo d’accordo. Riusciremo di certo a creare un teatro d’eccezione, come dice lei. Tulli dovranno parlare di noi. Naturalmente bisognerà che gli ideali c le teorie si adattino alla realtà.

Creda a me, chò una certa praticacela ce l’ho.

— Eran giunti nell’androne. — Vuoi venire in laboratorio a vedere un salotto secondo impero?

E’ quasi finito.

Il Silva si schermì. Il Diacci gli diede due o tre manate su di un gomito per scuoterne un po’ di calcinaccio e poi, al vederlo così occhialuto c smilzo nel soprabito un po’ stinto, ebbe per lui un po’ di tenera pietà: e gli parve d’avcrlo trattato un po’ male.

— Silva: ci vogliamo dare del fu?

Mario Cromo.

G. B. PARAVIA & C.

Editori-Librai-Tipografi TORmo-HItiANO ■ FIRENZE - ROMA -fiAPOLI • PALERMO LIBRETTI DI VITA NUOVISSIMO CA N TI D ÈVA Il cammino verso la luce Pt-r la prima volta tradotto dal sanscritto in italiano da (»’. Tacci, Prezzo Lire 7 È questo uno doi monumonti più significativi e più importanti doll’oscetica indiana, cho il Barth ha voluto paragonaroalla «Imitatio Chrlstl». Costituisce una dolio più alto o goniali croazioni, rappresenta uno doi più importanti fattori della rapida conquista doi Buddhismo doi mondo asiatico o «folla tnucgabilo opera di inoivilimonto cho esso ha osorcitato sui popoli doll’Estrcmo Orionto.

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