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il baretti 27


Rinunzia alla facilità. Ma rinunzia necessaria in quanto sola gli permette un conveniente e genuino impiego delle sue facoltà, il più completo rendimento di sè. Rinunzia quindi all’arte come lusinga premeditata, alla flatterie, alla seduzione del lettore. Non si darà che a questa paziente investigazione del cuore umano e dei suoi moti. Perchè soltanto nel perseguire questa investigazione una gaia lena lo anima, riprova, indubitabile segno della sua più particolare attitudine, quella in cui si può spender tutto nell’integrità più completa, disinteressatamente.

Il nodo originale (vorrei dire drammatico) della vita di Rivière è in questa istintiva prepotente necessità di vederci chiaro. Come dice dei suoi maestri Descartes, Racine, Marivaux, Ingres egli è mio di quelli che rifiutano l’ombra. (Ma la chiarezza di Racine non è spesso ingannevole, per vero! «une plus spécieuse ceinture» come dice Gide!) Riviére inclina violentemente a negare «l’infini psycologique» (8). Egli ricusa il mistero.

Il buio groviglio di radici sotterranee che ciascuno di noi è per sè stesso, e dall’approfondimento del quale, mediante una interpretazione inavitabile, il moralista si adopra soltanto a scoprire, a inventare, le condizioni di esistenza e di sviluppo della pianta «uomo» (come diceva Nietzsche) - Rivière non vuole, ma non può, che illuminarlo, palparlo, studiarlo. E’ un soufflé sans amour, un conseil brûlant che lo urge: «Apprend de toi ce qu’on peut en savoir!» (9).

Questa ricerca gli diventa una fine in sè. Del demonio interiore non si libera mediante la purgazione artistica. Gli è negato di potersi considerare come alcunché da render gradevole a chicchessia: «Je suis une chose pour moi, dont il faut que je m’empare par l’esprit. Je suis un objet d’expérience:... Je n’ai pas assez pour moi de cet amour que Dieu a pour sa créature. Je manque pour moi-même de charité. Je ne suis pas pour moi cet être baptisé, cette chère âme en epreuve ici-bas et qui d’abord doit être sauvée. Ah! je prie Dieu chaque jour qu’il me donne la vie éternelle, mais je ne sait m’aimer comme un être promis à cette formidable dignité» (10). Egli è dinanzi alla sua anima nel medesimo rapporto di François dinanzi a Aimée. E nell’opera di Riviére, che è tutta un rifiuto di ogni alchimia, la vicenda di François sta appunto a provare che nulla per lui poteva comportare in alcun modo di magico «l’étude - du bonheur que nul n’élude».

«Dans tout le personnage d’Aimée il y avait quelque chose qui ressemblait à la vérité. Et mon enthousiasme en le peignant, c’est bien celui qu’on eprouve lorsqu’on poursuit le vérité; une grande contention, une admiration pleine de cris empéchés, un transport sans cesse brisé par la crainte del mal voir, quelque chose d'effréné et d'essoufflè à la fois. Les traits que j'aperçois ne prétent pas sous l'effort de mon esprit, ils sont rebelles au foisonnement. Mais de les inscrire seulement, de relever chacun dans sa dure élégance, c'en est assez pour me remplir le coeur» (11).

Pilade, è dinanzi a questa modestia ostinata che m'inchino. Il giudizio sull’opera m’accorgo che troppo spesso rischia di trascinarne uno sull’autore: e proprio perchè dell’autore molto c’importa. Avviene così che quando la nostra sete di ammirazione è delusa il risentimento ci acceca. Sappiamo invece essere umili! Vedi l’esempio di Riviére: come coraggiosa e valida la sua accettazione. L’8 giugno 1912 scriveva a André Gide: «Mais je sais, je vois de mieux en mieux le domaine qui m’est résérvé, c’est à dire celui où mes conceptions se présentent avec le caractère de la nécessité. C’est le domaine de la psychologie pure. Je suis irrémédiablement condanné aux genres barbants, à faire de ces livres qu‘on ne peut pas lire, parce qu’ils ne représentent rien aux yeux. Tant pis! Il faut faire son metier, et pas celui du voisin... Croyez encore en moi, mais comme à un écrivain rasant. C’est ma seule valeur» (12).

Il valore di Rivière è in questa semplice subordinazione di sè non già ad alcunché che lo trascenda, ma, nella terrena gerarchia, alla parte che il senso d’una predestinazione interiore lo convince essergli assegnata. E il mio risentimento scopro che si alimentava proprio di quel che ora m’è ragione di ammirato rispetto. «Il y a beaucoup de grandeur dans un peu de vérité» (13). Il dono di quest’uomo a quelli del suo tempo si assomma nella sistematica confessione delle sue rigorose esperienze. Tutto il nostro tempo ve lo troviamo riflesso. Rivière non si è speso che a questa opera di rivivere altrui: e ricavarne le più precise mises au point nei riguardi del tempo e dello spazio. Siamo noi così impazienti da non saperci soddisfare di un tal dono? O forse che non amiamo abbastanza la verità?

Quel che più mi tocca l’animo nella vita di Jacques Rivière è quel suo sereno e doloroso rifiuto della part de Dieu. Sul letto di morte, dove disperatamente ha lottato gemendo, gli si sarà rivelato all’estremo, infine consolatore e vivificante, quell’appena percettibile anelito alla fede che un giorno s’era pur dovuto riconoscere in cuore? - «O frêle et étrange désir qui en moi n’es pas de moi!». E del quale, al termine della più disagevole delle sue confessioni, si chiedeva: «Est-ce la grâce!» (14).

Oreste.





(1) Une correspondance. N. R. F., 1 settembre 1924, pag. 309. (2) De Dostoiewsky et de l'insondable. N. R. F., 1 febbraio 1922, pag. 178. (3) De la foi. N. R, F. 1 dicembre 1912, pag. 993. (4) Marcel Proust et l’esprit positif. N.R.F., 1 gennaio 1923, pag. 182. (5) De la sincérité envers soi-même. N. R. F., 1 gennaio 1912, pag. 16. (6) Id. id., pag. 17. (7) Id. Id., pag. 9. (8) De Dostoiewsky et de l’insondable. N. R. F. 1 febbraio 1922, pag. 178. (9) De la foi. N. R. F., 1 dicembre 1912, pag. 993. (10) Id. id., pag. 994. (11) Aimée., pag. 82. (12) Hommage à Jacques Riviére. N. R. F., 1 aprile 1925, pag. 771. (13) La crise du concept de littérature. N. R. F., 1 febbraio 1924, pag. 170. (14) De la foi. N. R. F., 1 dicembre 1912, pag. 997.


Una triade di scrittori occupa oggi, nella letteratura di Francia, un luogo preminente. Coetanei, nati intorno all’anno della «débacle» per provare, si direbbe, la perdurante vitalità dello spirito francese, Gide, Proust, Valéry, nonostante la fondamentale diversità di temperamenti e delle preoccupazioni, s’incontrano tuttavia sopra un certo piano di incidenza: che sarebbe determinato da quella risoluzione degli oggetti in fenomeni di coscienza, in quella importanza e attenzione accordata alla propria vita interiore, accompagnata da un atteggiamento rigorosamente critico di fronte ai dati della personalità immediata, superficiale, sociale insomma. Se Gide porta cotesto spirito di libero esame nel suo modo di vedere e suscitare i problemi dell'azione, della vita morale, se Proust per sua parte lo applica a una lucida osservazione e ricreazione degli aspetti della vita affettiva, della personalità sorpresa nel suo momentaneo manifestarsi, nei suoi vari e simultanei piani, Valéry per converso si volge a una visione delle cose, interne ed esterne, da un punto di vista di rigida universalità intellettuale. La ricerca un poco più precisa di coteste affinità porterebbe a lunghi sviluppi; restringendoli a Paul Valéry, occorre vedere come questa posizione intellettiva, determinata che sia, permetta di penetrare in quel sistema spirituale che la sua opera presuppone.

Sistema spirituale: a pochi uomini, a pochi autori queste parole convengono, quanto strettamente si applicano alla personalità di Valéry. Una sorta di punto d’onore, infatti, lo porta a costituire il proprio mondo spirituale in un «sistema chiuso da se medesimo, o quanto meno che incessantemente si fa tale».

La sua sfiducia verso la filosofia, le ironie colle quali la punzecchia, vengono dal fatto che, a suo parere, le sistemazioni filosofiche sono soltanto delle costruzioni artificiose, basate più che altro sulle manifestazioni verbali del pensiero. Egli si è dunque votato per conto suo alla ricerca di una conoscenza meno illusoria di quella filosofica: e movendo attorno ai punti fermi di codesta ricerca, s’è venuto richiudendo in una rete di rispondenze sottilissime, ma più tenace ancora e infrangibile di quanto non siano, all’apparenza, tenui, impalpabili le sue fila smaglianti. Se ne ha un senso sempre più netto, via via che ci si accosti con un poco di familiarità alle sue opere: specie alle poetiche. Ivi, le cose appaiono sollevate in uno spazio rigoroso e astratto, spoglie di tutta la loro concreta gravezza, utilizzate soltanto in quanto simboli, concetti: ma senza nel medesimo tempo, dar nel generico, nell’evanescente: bensì con una impreveduta estensione, intensificazione, in un senso definito, dei loro significati, condotti a una solidità, fermezza di irradiazione, che testimonia di una precisa intenzione: le parole, piegate a usi singolari, coniugate in aspetti che riescono talvolta, a prima vista (alcuni anche alla seconda), alquanto barocchi, ma nei quali s’è condotti a riconoscer d’improvviso un recondito, voluto confluire di necessità lontane. Un mondo insomma, per impiegare le parole medesime del suo creatore, «di forze esatte e di studiate illusioni». Si sente la presenza, dietro all’opera, di una singolarissima attività: s’è indotti a figurarsi, in qualche modo «l’individuo che tutto ciò ha fatto, la visione centrale dove tutto ha dovuto avvenire, il cervello mostruoso o il bizzarro animale che migliaia di pari legami tra tante forme ha tessuti...» siccome Valéry immaginosamente scrive di un suo tipo ideale di creatore. Tentiamo di riconoscere questa figura. Non dovrebbe esser troppo difficile, parrebbe, poiché, in prosa e in poesia, la sua opera consiste anzitutto in proiezioni simboliche, su vari piani, di cotesta figura appunto: senonchè, in cotesto ufficio interpretativo,

«Aux meilleurs esprits

Que d’erreurs promises!»


annuncia il poeta geloso della propria «unicità». Senza parlare poi della inevitabile idealizzazione, cui il critico è condotto in siffatta analisi astrattiva. Su di ciò sarebbe bene che tutti ci si mettesse una volta d’accordo, per non parlarne più.

La sola forte influenza (non parliamo di acquisizioni stilistiche) rintracciabile nell’opera di Valéry, è quella di Mallarmé. Ancora è necessario intenderci: all'opera del primo rapidissimo espandersi dell’anima che si cerca, la figura di Mallarmé ha rappresentato per Valéry la rivelazione di un ideale nobilissimo, l’ha aiutata a prender coscienza degli scopi precisi che il proprio orgoglio poteva proporsi. Un esempio vivente: e quanto alla poesia, una miniera unica di esperienze, di meditazioni, di vedute originali, audacissime nelle forme e nell’altezza delle mire. Come non accendersi a questa visione di poesia assoluta, sintesi di tutte le arti, anzi suprema espressione dell’universo? Qui Valéry va rappresentato sotto la specie di quel Tridone Sidonio, navicellaio, del dialogo «Eupalinos ou l’Architecte»: formidabile assimilatore di cervelli altrui, il quale a modo del polipo «vertiginosamente s’impadronisce di ciò che gli conviene». Sono perciò assai significanti, anche riguardo a Valéry, queste sue frasi di un «Omaggio a Mallarmé». «L’amour, la haine, l’envie sont des lumières de l’esprit; mais l’orgueil est la plus pure. Il a illuminé aux hommes tout ce qu’ils avaient à faire de plus difficile et de plus beau... Plus l’orgueil est pur, plus il est fort et seul dans l’âme, et plus les oeuvres sont méditées, sont refusées et remises sans cesse dans le feu d’un désir qui ne meurt point. L’objet de l'art, attaqué par la grande âme, se parifie... Mallarmé se justifia devant ses pensées en osant jouer tout son être sur la plus haute et la plus hardie d’elles toutes. Le passage du songe à la parole occupa cette vie infiniment simple de toutes les combinaisons d’une intelligence étrangement déliée. Il vécut pour effectuer en sois des transformations admirables... Ce sont des corps glorieux que ses pensées: ils sont subtils et incorruptibles. On voit dans ses ouvrages... la tentative la plus audacieuse et la plus suivie pour surmonter ce que je nommerai «l’intuition naïve» en littérature. E infine «un homme qui renonce au monde se met en condition de le comprendre».

Che cosa l’orgoglio, questa «purissima luce dello spirito» insinua a sua volta a Valéry? Quale «il più alto e ardito» dei suoi pensieri, che giustifichi la sua facoltà pensante, e sul quale giocare «tutto il suo essere»? Una comprensione, un possesso intellettivo integrale, di sè stesso e del mondo, ecco la promessa che gli appare, l’esigenza ch’egli si pone. Di fronte alla universale facilità, indeterminatezza del pensiero, alla poca coscienza che esso mostra di avere delle proprie operazioni, al suo incessante istituire in realtà le proprie sentimentali tendenze; al suo flusso incoerente, che si illude colle apparenze di una continuità logica, Valéry si sente preso da un’ansia di solidità non fallace, di obbiettività, di chiarezza, di rigore. Considerare tutte le cose (e se stesso come una cosa) dal punto di vista del puro intelletto, e sotto un rapporto di rigorosa universalità: ecco l’atteggiamento ch’egli si impone, e che solo lo soddisfa, in quanto gli appare il più nobile, difficile. («La vera bellezza è tanto rara, precisamente, quanto tra gli uomini, l’uomo capace di sudare contro sè stesso, vale a dire di scegliersi un certo sè stesso, e di imporselo»). Cotesto atteggiamento conoscitivo, nel suo rigore, esclude ogni criterio umano, psicologico, patetico, e tutto considera sotto l’aspetto di forme, di forze, di movimenti. Esso si applica a seguire il più esattamente il meccanismo, il funzionamento degli esseri, delle cose; del mondo esterno e interno. Una sorta di stoicismo implicito, senza rumore, è così instaurato. Dice ancora Fedro di quel Tridone Sidonio: «Quel brave homme c’était... Jamais un regret, jamais un reproche, jamais un remords, jamais un souhait...». Comprendere il mondo, è anzitutto comprendere lo spirito dell’uomo, traverso il quale soltanto la sua esistenza appare: e appare diversa in ogni momento. Della poca coscienza che esso mostra di avere delle proprie operazioni, magari ammirevoli, Valéry si stupisce e accora. Rendere patenti, logicamente distinguibili le oscure maturazioni dello spirito, scomporre in elementi successivi e definitivi quei moti per cui esso procede, senza pensarli ma come per atti istintivi e indivisibili: ecco il suo sogno e il suo fermo proposito. Un intero possesso di sè, delle proprie facoltà, una visione della propria essenza, ottenuta traverso a una incessante attenzione al proprio spirito nel suo svolgersi.

Qual’è il segreto degli uomini creativi, artisti, scienziati, politici, guerrieri? Valéry assai per tempo si persuade che una facoltà unica, centrale, deve presiedere a estrinsecazioni tanto diverse: egli la vuol ritrovare, analizzare. Questa persuasione lo disgusta di ogni risultato approssimativo, di ogni creazione ottenuta senza una chiara coscienza dei suoi mezzi: «I romanzi, i poemi, non mi parevano altro che applicazioni particolari, impure e mezzo inconscie, di alcune proprietà inerenti a quei famosi segreti che confidavo di trovare un giorno...». E in quegli anni che Mallarmé andava perseguendo certi suoi fantasmi di una suprema espressione poetica, Valéry per sua parte intermetteva ogni produzione (i suoi versi di quel tempo sono stati raccolti soltanto nel 1920, in un «Album de Vers Anciens») e si dava a pertinaci studi, ricerche, meditazioni. In particolare, il dominio delle scienze, delle matematiche, coi loro tipi generali di costruzione astratta, i loro modelli di raffinatezza analitica, lo attraggono. Non per trovarci una diretta risoluzione dei propri problemi, ma per sorprendere su se stesso in tutte le loro forme «mouvantes, irrésolues, encore à la merci d’un moment, les operations de l’esprit... avant qu’elles s’éloignent de leur ressemblance», per trovare dunque la certezza e le modalità di un «Jeu général de la pensée». Per impadronirsi, nel medesimo tempo, del maggior numero di quei linguaggi, nei quali lo spirito fissa le proprie concezioni. Poiché «nove volte su dieci, ogni grande novità in un ordine è ottenuta grazie all’intrusione di mezzi e nozioni che non v’erano previsti» e di conseguenza «la quantità di cotesti linguaggi posseduti da un uomo, influisce singolarmente sul novero delle sue possibilità di trovarne di nuovi». Questo è uno dei segreti degli spiriti universali.

Cotesta posizione conoscitiva pura, non conosce arresto nell’esercizio di se stessa; teso verso una soddisfazione tutta interiore, verso il limite irraggiungibile della propria perfezione, il pensiero senza tregua su se medesimo si rivolge, s’accresce, si trasforma, s’annulla. Esclusa ogni mira di azione, di affermazioni esteriori, è tolta anche qualsiasi necessità, per cotesto pensiero, di fissarsi, di irrigidirsi in una forma comunicabile. Di qui viene quel carattere di occasionalità, che Valéry tanto insiste ad attribuire ai propri scritti. E’ soltanto in virtù di una suggestione venuta dall'esterno, che questa meditazione consente a concretare in parole alcuni dei suoi problemi, o, ch’è lo stesso, dei suoi risultati. In tal modo, come si sa, è nata quella «Introduzione al metodo di Leonardo»; dove sotto il simbolo, ora ideale, ora storico, di Leonardo, Valéry espone il suo modo di concepire quel «jeu général de la pensée» che lo occupa, trovandone l’origine in una sorta di elementare attività ornamentale dello spirito.

In questa operetta è mostrato per disteso il funzionamento intellettuale dell'«uomo universale» come lo intende Valéry e come esso giunga, traverso a uno sdoppiamento di se, al controllo, alla direzione della propria attività pensante: sì da poterla utilizzare, piegare a creazioni definitive.

Senonchè, giunge a pensare Valéry, il fatto medesimo della estrinsecazione, dello spendersi in azioni, non è per lo spirito uno scadimento? «Il tempo speso a comunicare cogli altri, non è forse tolto alla contemplazione, al perfezionamento della propria «unicità»? Il consentire a mostrarsi, a dar prova di se, non è nel genio un segno di parziale debolezza? Ed ecco Valéry immaginare una nuova personificazione simbolica di queste sue tendenze, in un Monsieur Teste, impensata trasposizione del mito di Narciso; un essere «dont l’ésprit transformait pour soi seul tout ce qui est» vale a dire che digeriva il mondo in elementi di una particolare conoscenza, che in ogni cosa soltanto apprezzava il grado di facilità o di difficoltà nel compierla, ma soprattutto badava «a ne pas s’attacher»...Teste, l’uomo che ha «ucciso dentro di se la marionetta» che ha ottenuto il controllo assoluto della propria personalità, della quale egli persegue indefinitamente la costruzione secondo leggi sempre più rigorose e complesse. La conoscenza con cotesto signore ha influito assai sulla formazione mentale di molti giovani scrittori francesi. Ed eccolo ora, a trent’anni di distanza, tornare in scena, in una curiosa lettera di Emilia Teste, sua supposta consorte. Dopo quelle due operette, testimoni per non dire d’altro, di un pensiero singolarmente inoltratosi in un regno di «clartés toutes personnelles», e dopo alcune pagine date al Mercure de France, il silenzio di Valéry s’è andato protraendo per una ventina d’anni. Al modo di quel signor Teste, egli si chiudeva nella solitudine del suo spirito, avido soltanto della propria conoscenza.

Quale il modo in cui essa si attua? La maledizione dello spirito è di esser trascinato in una continua rapina, coll’illusione di una logica continuità, mentre per vero esso si possiede poco meglio che nei sogni. Pure, in certi istanti privilegiati, gli è dato di fare improvvisamente ritorno su se stesso, di contemplarsi nel suo fluire, di strappare a se stesso una scintilla della propria verità. L’ambizione, lo sforzo dell’uomo tenderà dunque a rendere sempre più lucidi e frequenti siffatti istanti, a sorprenderne i risultati, formarli, organizzarli nell’animo, perché possano crescere su se stessi. I «Pensieri» di Pascal, gli scritti di Leonardo sono dei frammenti strappati a cotesto «dramma interiore». In un caffeuccio di Milano, entro una sorta di nicchia formata da una scaletta che sopra le nostre teste conduceva alle sale superiori, tra il continuo trillare di un telefono e le ordinazioni gettate in corsa dai camerieri, Valéry parlava un giorno abbandonatamente, come in certe ore di stanchezza accade, di una sua siffatta attività incessante: narrava della quantità di note che da venticinque anni veniva prendendo in certi quaderni dove esse giacevano ora tutte commiste, difficile a decifrare, peggio a rintracciare: si lamentava degli ostacoli materiali, che gli rendevano impossibile di giunger mai a chiarirle, riordinarle, render sensibili agli scopi di certo suo lavoro... E intanto la mia fantasia correva a rappresentarmi, nel futuro, una figura di Valéry diversamente impostata da quella che ci è familiare, e per la quale un corpo singolarissimo di «Pensieri» più ancora che le opere compiute, dialoghi, trattati, poesie, costituisse motivo di gloria...

Il lettore ha di già compreso che tale forma di conoscenza è, nei suoi modi e nei risultati, lirica. Vale a dire che essa si determinava nella emissione di immagini, riassuntive di un lungo lavorìo analitico, e creatrici di un nuovo aspetto sensibile del loro oggetto. (Qui si palesa quella identità perseguita da Valéry tra l’attività scientifica e artistica. Nell’una come nell’altra, avviene che lo spirito «universale» concreti le risultanti del proprio travagliarsi tra le cose, in immagini che impongono una nuova rappresentazione del mondo). Di questi ultimi anni, Valéry ha ripreso una attività poetica, letteraria, seguita. Per un ritorno analogo, si può pensare, a quelllo adombrato dal suo Socrate, nelle ultime pagine del dialogo: «Eupalinos ou l’Architecte», egli s’è lasciato sedurne dalla tentazione del costruire. In quella «partita a scacchi che la conoscenza gioca coll’essere» il pensiero s’accorge, su se stesso rivolgendosi, di non penetrare che in una «foresta di trasposizioni». Si comprende come esso sia tentato di rallentare il proprio rigore, a momenti, e concedersi a un esercizio più giocondo delle proprie facoltà, ad arrestarsi in maturazioni che non periscano dentro di se medesimo. Ritorno iniziato