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26 il baretti


tivi proprio negli aspetti e nelle forme donde essa era nata primamente. Non ci dobbiamo chiedere — e il precisare la domanda ne rivela già l’assurdo — se le luci, i colori, gli odori che Proust ci descrive siano quelli veri, quelli che veramente brillarono e gli sorrisero al tempo della sua fanciullezza. Autentico romanziere, e non storico nè scrittore di memorie, egli ci offre, per un fatto od una sensazione od un sentimento, particolari e notazioni verosimili e riesce, con l’artificio di giuste intonazioni e di adeguati ambienti, a farci scambiare il suo verosimile col nostro vero.

La Recherce è tutta costruita su movenze identiche a quelle da cui nascono le Journées; sempre l’autore parte in cerca di un’antica attenzione che ha smarrito il suo oggetto primitivo e che non ritrova se non la musica nella quale, senza darsene per intesa, si era allora lasciata calare. Le Journées, del resto, non sono se non una Recherche troncata alle prime pagine, con già tutti i temi che ritroveremo in Du côté de chez Swann: il giardino che sarà poi il giardino di Combray, l'interno della casa di villeggiatura con una grand’tante che somiglia affatto alla grand’mere della Recherche. E, quando vorrà dare principio al romanzo, Proust prenderà le mosse dall’attenzione che, fanciullo, egli volgeva a catturare il sonno renitente e ritroverà, per questa via errabonda e distratta, l’ambiente serale e notturno della casa di Combray, della propria stanza di Combray. Poi, per seguitare, andrà in traccia del gusto di un pezzo di madeleine inzuppato nel thè. E così avanti. Si darebbe ragione a Rivière che riassume Proust nella figura dell’uomo che non pratica tagli nella realtà, che non si preoccupa di scegliervi ciò che lo attrae o lo interessa o lo soddisfa, e di respingere il resto; senonchè tale devozione che non conosce preferenze, questo sentire tutto, percepire tutto, senza eccezione, questa — diceva Rivière — «sérénité presque insupportable du regard» vogliono essere considerati come il rovescio e la resipiscenza di una passata attenzione che aveva tutto escluso, per prendere di mira un solo oggetto. In seguito a siffatto rovesciamento, a siffatta resipiscenza, le temps perdu in una lunga serie di interessamenti particolari e limitati, viene rétrouvé.

II.


Hanno voluto, taluni, fare della memoria la preponderante facoltà di Proust. Impropria formula: massime se sia stata escogitata a spiegare la stupefacente ricchezza di particolari che pullulano intorno ad ogni argomento toccato dalla Recherche. Proust non musica affatto un libretto fornitogli dalla memoria. Del resto, segnalando il valore di pura verosimiglianza, e non di verità storica, delle descrizioni proustiane, abbiamo già — per questo lato — messa fuori causa la memoria, che sarebbe la naturale depositaria della verità storica. Ma coloro che hanno fatto, di Proust, principalmente il poeta della memoria, avranno avute intenzioni più sottili: che vale la pena di discutere.

Tutti i poeti hanno fornito, a modo loro, una riprova ad un esempio del vecchio adagio: primum vivere, deinde philosophari, scandendo sul ritmo binario di quell’adagio i momenti successivi secondo cui si e sviluppata, in una cronologia più o meno rigorosa, l’opera loro: prima vivere, e poi rendere lirica testimonianza delle cose vissute. Ma i due poli del vivere e dello scrivere pare che Proust li abbia toccati in più speciosa maniera e che, del suo passaggio dal primo al secondo, abbia fatta addirittura la ragione del romanzo suo. Prima la vita, e soltanto la vita; poi l’arte che si piega a rimembrarla: e questa è un poco la morale critica di quella leggenda, di colore leggermente estetizzante, che narra di un Proust chiuso in una stanza a doppia parete, esule dal mondo, e volto solo alla composizione della Recherche. Gli altri romanzieri sensibilmente avevano redente le esperienze della loro vita nelle favole dei loro eroi: talché gli eroi non apparivano semplici mandatari dell’autore ambasciatori di ricordi suoi, dei quali non portavano pena: il materiale mnemonico che fosse, per avventura, entrato a plasmare i loro temperamenti o caratteri aveva fatto blocco con essi e smarrite le natie sembianze. Nella compagine narrativa non si potevano più discernere, se non viziosamente, — a titolo di indiscrezione o di pettegolezzo — eventuali documenti della vita dell’autore; più o meno belle e buone invenzioni erano, che si giustificavano come aspetti artistici, coerenti ed umani della vita dell’eroe. Proust, all’incontro, non si costituisce — dicono — dei testimoni che vengano a sollevare la sua esperienza personale a trasfigurazioni fantastiche: quella esperienza, egli la consegna immediatamente al suo romanzo come cosa ricordata. E scrive, dunque, il romanzo della memoria. Ma allora va perduto uno dei caratteri, a nostro avviso, fondamentalissimi della Recherche. La quale si presenta come un corteo fantasmagorico, vera e propria féerie, di tutte le piccole cose e sensazioni e fatti che, sulle carte di Proust, auspice la persuasiva musica in cui egli li ha sommersi, hanno trovata l’anima loro: il genietto complicato e vario che li riempie, con tutta la vicenda ricca e mutabile dei suoi moti. E vi fu chi giustamente paragonò la Recherche alle Mille e una notte «d’un vizir moderne, fantasque, ténébreux et charmant». Quei genietti, quegli infusori natanti, commossi e luminosi sono i veri protagonisti del romanzo di Proust: il senso, mettiamo, della «petite phrase» della sonata di Vinteuil, o l’atmosfera della città di Doncières, o l’odore di una stanza d’albergo. E stanno alla vita pratica di Proust come qualunque protagonista di romanzo sta a quella del suo poeta. Che cosa rappresentino, di fronte a codesti infinitesimali protagonisti, le grandi figure dei personaggi (Swann, Françoise, Odette etc.) che compariscono e indugiano nella Recherche, vedremo qualche altra volta. Qui preme di notare che i protagonisti del romanzo proustiano occupano, non uno spazio materiale, bensì una durata: il terreno sul quale nascono, si posano, si succedono ordinatamente tra loro, sviluppano e intrecciano le loro microscopiche vicende, vorrà essere il luogo di tutte queste durate: cioè la memoria. Essa è veramente il paesaggio sul quale Proust situa i suoi eroi. E come i paesaggi di tutti i buoni romanzi interferiscono nella natura dei personaggi, la influenzano e, anche, la spiegano: offrono tutti i loro aspetti e le loro risorse per contrappuntare le fisionomie e gli sviluppi morali dei personaggi e, d’altra parte, pare si risentano in qualche modo dei casi che toccano a quelli — così la memoria è generosa, al romanzo di Proust, dei suoi filtri, delle sue tinte melodiose, delle sue patine sentimentali, delle sue vernici velate, delle sue patetiche brume. E segnatamente alleva e nutre quella attenta affettuosità che è tra i più indimenticabili contrassegni del tocco proustiano: gonfia dolcezza di che si rivestano le cose quando ci confessano senza più amareggiarci: quando cioè possiamo riferirle ad un passato che più non arroventa la nostra passione, ed a cui pure vogliamo bene perchè è il nostro passato.

Un filosofo spagnolo ha proposto di fregiare Proust col nome di «inventore», anzi che con quello un poco mistico di «creatore» che vien decretato genericamente ai poeti. Proust ha scoperto un nuovo filone di cose da descrivere: di un continente che ne era stato escluso fin qui, ha segnato la longitudine e la latitudine nella letteratura. A nostro avviso, quelle cose si possono radunare sotto il nome di idiosincrasie: Proust, poeta delle idiosincrasie. O meglio, di quelle che prima di lui, solevamo considerare sterili ed incomunicabili idiosincrasie. Una popolazione fitta, e anche molesta, che viveva nel subcosciente e ogni tanto mandava certi suoi oscuri avvisi e non cessava tuttavia di insidiare la nostra volontà di conoscerci e di discernerci intimamente. Era una posizione un poco tantalica, la nostra: a interrogare quelle idiosincrasie non si ritraeva se non poche parole teoriche di un linguaggio troppo viziosamente nostro. In segreto, si poteva anche venire a rassegnate transazioni, integrando il vago delle idiosincrasie con la nozione di un certo «non so che» resistente ad ogni indagine: fingendo, insomma, di aver capito tutto, ma se ci fossimo voluti aprire con altri circa quegli oscuri esseri abitanti il nostro spirito in una sorta di simbiosi incallita, sarebbero saltati in mezzo la certezza di non riuscire a farci intendere e, anche, una punta di pudore. Si parlava di sensazioni «caratteristiche»; e noi si pativa delle nostre, gli altri delle loro. Con mano cauta e scrupolosa, Proust è riuscito a sciogliere l’ordito impenetrabile delle idiosincrasie, rispettandone per altro la morbida ed ombrosa natura. Ce ne ha detto il segreto così chiaramente che tutti le abbiamo riconosciute: e nondimeno le ha lasciate libere tra le native aure del subcosciente. Basterebbe pensare a quel capitolo finale dello Swann intitolato: Noms de pays: les noms. Dei paesi sconosciuti, quando li vagheggiamo come possibili o desiderabili luoghi per un nostro soggiorno, ci foggiamo rappresentazioni in qualche modo somiglianti agli sfondi architettati dalla scenografia «sintetica»: dove pochi elementi generici: pezzi di muro, colonne, alberi mozzi o rupi, giocati sotto luci confacenti e capziose, si completano di tutti i dettagli tralasciati, che la nostra immaginazione aggiunge scegliendoli tra i più propizi ad incorniciare il dramma: e ne esce una scena valida ed espressiva più che qualunque veduta minuziosa e realistica. Ma, per inventare siffatte scenografie, noi diventiamo, alla moda di Rimbaud, degli «opéra fabuleux»: le figure sono illuminazioni saettanti e fugaci; le emozioni, evanescenti vertigini. Proust, di quei paesaggi evasivi e fragilmente fondati in qualche luogo imprecisabile e sognoso, riesce a rilevare la topografia, a dare una fotografia completa con i giusti lumi. Riesce, degli odori vaghi di città ignote, a distillare l’essenza. Del vagheggiamento di una città che non si è mai veduta, riesce a ordinare una figura non meno certa e irrevocabile di quel che sia il ricordo di una terra visitata. E ci offre la guida, il poetico Baedecker di quella Venezia, di quella Firenze che sono ancora allucinazioni fantasiose, fatte di reminiscenze letterarie, pezzi di cartoline illustrate, frammenti di sensazioni altrui e soprattutto del nostro ansioso desiderio di presentirle allorché le pensiamo mete di viaggio. Ancora: siffatti presentimenti, che ci erano parsi gratuiti, Proust li accerta e li invera con motivi fermi, quanto delicati: e il suo sogno di Venezia diventerà anche il nostro, quasi che egli ne abbia fissati gli elementi più indiscutibili. Perchè, quasi sempre, per cristallizzare quegli incatenamenti, egli muove da premesse positive e indubitabili: come sarebbe, per esempio, la sonorità dei nomi. E arriva a stabilire la poesia, la verità poetica delle audizioni colorate di cui non ci era stata descritta finora se non l’empirica fisiologia. Nè l’audizione rimane solo colorata: più feconda, diviene tattile e gustativa e olfattiva e si associa insomma a tutti e cinque i sensi e perfino a quel sesto senso di cui tutti parlano e che, nella fattispecie, si rivela forse come il residuo ultimo di tutte le nostre assimilazioni artistiche e, in largo senso, colturali. Ci accadrà allora, sotto l’influenza proustiana, di trovare la sonorità «mordorée» del nome di Guermantes, o di dover riconoscere, più squisitamente, che il nome di Parma reca in sè qualcosa di «mauve et lisse et doux» dove circolano «douceur stendhalienne» e «reflet des violettes».

Era naturale che a risultati come questi, Proust dovesse giungere mediante trasposizioni che rendessero sul registro di qualità più affabili e domestiche quelle essenze oscure e rapide che egli voleva adombrare. Senonchè la trasposizione, nella scrittura di lui, non è un paragone, non fa immagine: non ripete l’artificio solito di riversare su cose ignote — per il tramite di un come, più o meno esplicito — la luminosità delle cose conosciute. I punti di riferimento a cui le più riposte realtà si appoggiano, per esprimersi, vengono a far corpo con esse: vengono a verificare, con tutta naturalezza, aspetti mono segreti dell’indole e momenti meno difficili dell’esistenza di quelle. Del resto, come semplice impressione di lettura, Gide osservava già che «l’on en vient à douter lequel prête à l’autre le plus de vie, de lumière et d’amusement, et si le sentiment est secouru par l’image, ou si cette image volante n’attendait pas le sentiment pour s’y poser». Ma, meglio che un rivelatore di prestigiose associazioni, Proust ci appare un osservatore pacato: tutti gli stimoli che riceve, li affonda in una zona di sensorietà indifferenziata donde si dirameranno, come da una vera stazione centrale, perentori e decifrati messaggi per ciascuno dei sensi che li potrà ricevere con precisione.

La frase di Proust disegna, col giro delle sue articolazioni, i modi e le tappe del procedimento con che sono scoperti a volta a volta i risultati che la colmano. Proust si è inventata una frase lenta, volubile e insinuante che si tuffa nell’ombra del quasi inconscio, va a raccogliere il dato che cercava, erra con lui nelle fluttuazioni ancora cieche e un poco penose che esso deve durare per dispiegarsi, e infine esce, sorridente aperta e decorosamente trionfale, con la sua conquista. E’ fatta, anche, a somiglianza delle frasi melodiche di Chopin che sono, per il sentire di Proust: «phrases, au long col sinueux et démesuré... si libres, si flexibles, si tactiles, qui commencent par chercher et essayer leur place en dehors et bien loin de la direction de leur départ, bien loin du point où on avait pu espérer qu’atteindrait leur attouchement, en qui ne se jouent dans cet écart de fantaisie que pour revenir plus déliberement — d’un retour plus prémédité, avec plus de précision, comme sur un cristal qui résonnerait jusqu’à faire crier, — vous frapper au coeur». Le lente e studiose divagazioni nell’ombra iniziale e generatrice, sono quelle che giustificano la limpidità finale, che conferiscono l’adeguato peso all’asserzione e tolgono ogni sospetto di gratuità, mettiamo, a quel «mauve et lisse et doux» detto del nome di Parma: così come un antefatto lasciato supporre, con tutti i suoi sviluppi passionati e dolenti, rialza a valori di piena umanità le parole pronunziate davanti a noi dagli eroi dei grandi drammi. E la tortuosità sintattica di cui Proust fu accusato, deriva dai lunghi indugi nel prenatale limbo delle idee, dove non sono che presentimenti ravvolgenti in nube e reagenti tra loro in torbida confusione molecolose: Proust che, per l’indole stessa del suo stile, non può, nè deve, trascurare alcuna di quelle molecole e delle loro traiettorie, aveva l’obbligo di lasciare posto agli incisi e alle parentesi, e agli incisi negli incisi ed alle parentesi nelle parentesi. Ma sempre la frase si appunta verso una linearità finale, trova cadenze semplicissime e perspicue, sviluppa in una fioritura luminosa e gloriantesi in pieno sole, il faticoso groviglio delle sue radici. Si sorprende quasi sempre, nella cadenza, lo scatto del polso che, rovesciando la mano, porta la preda, oramai rassegnata alla sua dolce cattività, dall’ombra alla luce. E la trasparenza raggiunta sul finire della frase, la risale poi tutta intera: ristabilisce gli ordini, le conseguenze e le linee direttrici che erano state, in apparenza, smarrite: ogni sillaba della cadenza sembra chiudere il bandolo di uno dei fili ragionativi e musicali che s’erano confusi nella trama avviluppata del periodo.

Di più d’uno e, forse, di quasi tutti i maggiori poeti contemporanei — e massime dei francesi — si è inteso dire che possiedono il dono di rendere concreto, l’astratto. Proust invece non passa dal registro astratto a quello concreto; ma dalla concretezza di un mondo, per sua natura sensuale, tutto riluttante stupore, a quella di un mondo intelligibile. Anzi egli non assume, in generale, un dato astratto, quale che sia, per tradurlo, in veste sensibile, sulla pagina: ma prima lo sottopone ad una preparazione, ad un tirocino, dandogli un’esistenza di idiosincrasia. Il pudore con cui tasta e sommuove una materia, che avanti di salutare le albe della luce poetica, è divenuta così carnalmente sua, non è tra le ultime ragioni del fascino di Proust.

Giacomo Debenedetti.


PIERO GOBETTI — Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60

Poesie:


ADOLFO BALLIANO

Vele di fortuna

L. 5

UBALDO RIVA

Passatismi

L. 1O


Lettera

in morte di Jacques Riviére

Les affections me viennent

beaucoup de l’esprit.


Caro Pilade,

incomincio col ringraziarli della tua lettera. Ma non sperare (o temere) che ti risponda. Non t’inganniamo nè l’uno nè l’altro circa il valore di questa corrispondenza. La tua, la mia esperienza è più larga di quel che a un disattento non paia. E la forma individuale del discorso non è che il pratico mezzo per tradurre nei termini più intelligibili che ci son consentiti, idee parecchio generali. Se hai stimato di poter rompere il silenzio, appunto è perché prender corpo non significava per te scendere a discussione polemica; ma solamente occupare una pausa con variazioni tue su di un tema così obbligato da essere irrecusabile come tutto quel che ci condiziona. Grazie dunque. E a me!

La lettera d’oggi ho indugiato un pezzo a scriverla. Perchè è una gran tentazione sempre quella che ci vorrebbe persuadere della inutilità della scrittura. Mentre d’altro canto come venirne a capo di quel segreto impegno con sè stessi di vederci un po’ più chiaro in certe questioni che del resto poi hai un bel svoltare e volerle eludere, non cessano di riproportisi a ogni canto di via. Vengo al fatto.

La morte di Jacques Riviére ha occupato i miei pensieri più di quel che non avrei immaginato. Questa morte (a trentott’anni) contro la quale i suoi amici narrano ch’egli accanitamente ha combattuto durante i pochi giorni della malattia. Lui che, or sono due anni circa, dichiarava: «cette espèce de rage avec laquelle je rèagis toujours dans le sens de la vie. Dans ma lutte pour vivre, je ne m’avouerai vaincu qu’en pendant le souffle même» (1).

Un certo disagio m’aveva sempre pervaso al contatto dell’opera di Riviére, una insoddisfazione per i limiti entro i quali lo vedevo sforzarsi a costringere l’emozioni. E mi spazientiva quella sua instancabile mania di ragionarle, teorizzarla, mania veramente che null’altro mi pareva guidare se non una vacua preoccupazione di nulla lasciar sfuggire all’analisi dei sentimenti umani o più precisamente del moi. Uno dei suoi convincimenti era appunto, come dice nel concludere una nota su «Dostoiewsky et l’insondable»: «En psychologie, la véritable profondeur c’est celle qu’on explore» (2).

Fin dalle Etudes, via via per i vari saggi pubblicati sulla Nouvelle Revue Française, fino ad Aimèe e più in qua, questa volontà la ritrovavo così insistente nel suo trar vita da sè soltanto senza giungere mai a metter frutti da poter staccare dal ramo (la grazia della fioritura di Aimèe vedi com’è riuscita artificiosa, quasi astratta, e priva di virtù simpatica!) che avevo finito per scostarmi alcun po’ infastidito da Riviére, come da uno sterile albero parlante, intento solo a indagare, cogliere e pago, pareva, di raccontare, le vie segrete della sua germinazione solitaria. Venivo così a non riuscire di considerare costui altrimenti di un ingenuo Narciso, chino sulla sua immagine riflessa dal flutto interiore. Mi sfuggiva a che grado gli era negato di amarsi. Questo è il punto. Per poco non gl’indirizzavo certi antichi versi di Cecchi:

Tu che ti accetti calmo come un albero!
E sullo strame
delle tue combinate insufficienze
tenace covi il tubero spugnoso
della tua arte!

E invece bisogna proprio arrendersi a constatare quanto scevra da ogni elemento non strettamente intellettuale sia la compiacenza d’una tale indagine. C’è qualche ingenuità dopo aver dichiarato: «C’est la passion de la connaissance qui m’anime» ad aggiunger subito: «la seule qui sont vraiment impie» (3). Ma il peculiare scrupolo di sincerità di Rivière ci rivela in queste parole il centro animatore della sua vita. Dove leggi impie intendi un aggettivo inteso a qualificare questo sentimento di curiosità appassionata, che gli fa preferire (stimandola egli possibile) una perfetta, positiva conoscenza di sè stesso a qualsiasi rifegrazione di sè in uno di quelli che egli chiamerà «de vastes mythes satisfaisants». (4). Preferenza incontrastabile, perchè irreducibile questo sentimento. Ridurlo, Riviére sentiva che per lui sarebbe equivalso ad annullarsi. Ma questa necessità incombente su di sè non è senza lacerazioni e contrasti che la prova: egli la sopporta più di quel che non l’ami. Piuttosto è come una frenesia, che lo pervade talora di gaiezza, ma di una gaiezza asciutta, solitaria. La sua particolare ammirazione per Stendhal si esprime in questa lode: «Jamais il n’esquive rien de lui-même. Pourtaut, corregge subito, je ne puis l’aimer sans gêne... il m'apparait déformé par l’excercice de cette sincérité que j’admire en lui. Je le vois peu à peu saisi par l’isolcement; peu à peu il perd communication avec les événements... il ne prend d’eux que le psychologique... il ne leur demande que de déclancher son âme» (5). E finalmente rivolgendosi a Stendhal — non solo, ma quasi anche o quella parte di sè stesso per la quale Stendhal è appunto giunto a toccarlo così profondamente, rompe in questa esclamazione: «Pauvre grande âme maladroite! Elle est exclue de partout. On s’est passé d’elle. Plus rien ne lui est domandé. Elle est frappée du grand malheur d’être inutile. Elle était trop attentive, elle hésitait au moindre sacrifice. Stendhal s’est attaché comme un confident à sa propre personne; il ne peut plus entrer nulle part avec celui-là qui le suit» (6).

Quanto a sè stesso, Riviére, in una sola frase riassume tutte le sue necessità, i suoi limiti le sue contraddizioni: «Il est plus difficile, et plus gai d'être sincère que d’être juste» (7). Più difficile.