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38 | il baretti |
Il Baudelaire, tuttavia, non si è semplificato e teologizzato. La sua mitologia lirica non si conclude in un’esposizione, ed egli non ha trasferito nel mondo di Satana i termini di un conflitto, di cui questo mondo è soltanto un attore. Le sua religiosità non è una questione di parole ed è un dramma vissuto, con tutti gli smarrimenti e con tutte le angosce dell’uomo.
La poesia, essa soltanto, si pone come il Bene contro tutto ciò ch’è il mondo e l’umano. Che cosa è, allora, il brutto o il bello nell’arte, se l’arte è trasfigurazione e corrispondenza del Cielo: se essa ci apre la porta del Cielo?
Que tu viennes du ciel ou de l’enfer, qu’importe,
o Beautè! monstre enorme, effrayant, ingènu!
Si ton oeil, ton souris, ton pied, m’ouvrent la porte
d’un Infini que j’aime et n’ai jamais connu?
(Hymne a la Beautè)
Questa è la metafisica del Baudelaire. «Le vice... comme outrage à l’armonie, comme dissonance, blessera plus particulièrement de certains esprit» poétiques; et je ne crois pas qu’il soit scandalisant de considerer toute infraction à la morale, ou Beau moral, comme une espèce de faute contre le rythme et la prosodie universels. C’est cet admirable, cet immortel instinct du Beau qui nous fait considerar la Terre et ses spectacles comme un aperçu, comme une correspondance du Ciel... Ainsi le principe de la poèsie est, strictement et simplement, l’aspiration humaine vers une Beautè superieure».
Platonismo, dunque; premessa d’un qualunque romanticismo. Baudelaire sfugge al moralismo e ripara nell’integralismo lirico-religioso. Chi sa che cosa avrebbero suggerito all’Hugo i temi dei Paradis artificiels! Per Baudelaire non è un giudizio morale che può investire cotesto vizio che è un peccato allo stesso titolo d’ogni altro. Tra l’ebbrezza moralistica di Jean - Jacques e l’ebbrezza dell’haschisch non c’è gran differenza. Sono l’una e l’altra, peccato di vanità. Il pensiero che sboccia in cima a cotesta presunzione e questa: «Io sono diventato Dio». L’entusiasmo, col quale Jean Jacques «admirait la vertu, l’attendrissement nerveux qui remplissait ses yeux de larmes, à la vue d’une belle action ou à la pensée de toutes les belle» actions qu’ il aurait voulu accomplir, suffisaient pour lui donner une idée superlative de sa valeur morale. Jean - Jacques s’était enivré sans haschisch» (1).
Tutto ciò nega la libertà umana e l'indispensabile dolore. Le felicità non è il fine della vita; essa non può essere cercata nell’immaginazione; la morale non è eudemonismo.
Moralismo ed haschisch sono gioie solitarie (in quanto meramente umane e disconoscenti Dio) con le quali l’individuo è mosso a vagheggiare continuamente se stesso e si getta «nell’abisso luminoso ov’egli ammira la sua faccia di Narciso». Sono gioie magiche che la Chiesa segna col sigillo della dannazione e che si acquistano a prezzo della salute eterna.
La poesia, come espressione della libertà, si contrappone ad esse, perchè è purificazione e religione. Dio è Apollo. E mentre il divino Apollo, maestro di ogni sapienza, carezza con l’archetto le corde più vibranti, sotto di lui, tra i rovi e il fango, si dibattono quei «disgraziati che non hanno nè digiunato nè pregato e che hanno rifiutato la redenzione del lavoro». Essi soli, i poeti e i filosofi, rigenerati dal lavoro e dalla permanente nobiltà delle intenzioni, creano un giardino di vera bellezza, compiendo il solo miracolo che Dio ci abbia concesso di fare (2 ).
Attraverso una religiosità attiva e creatrice, il Baudelaire cerca il valore cosmico della poesia.
La religiosità di Verlaine si pone in confronto, in termini pietosi e comuni come espressione di una fragilità psicologica utile soltanto a documentare l’uomo.
— Il faut m’aimer! je suis l’universel Baiser
dice il Signore a quest’uomo. Ed il convertito risponde:
— Seigneur. c’est trop! Vraiement je n’ose.
Aimer qui? Vous?
Oh! non! Je tremble et n’ose. Oh! vous aimer je n’ose.
je ne veux pas! Je suis indigne. Vous, la Rose Immense des purs vents de l’Amour, ó Vous, tous les coeurs des saints, ô vous qui fùtes le Jaloux d’Israel. Vous, la chaste abeille...
(Sagesse)
Infatti i Fleurs du mal non sono un libro autobiografico, ed è perfettamente inutile preoccuparsi di una corrispondenza precisa tra il Baudelaire, di cui parliamo noi (e di cui solo abbiam diritto di parlare) e il Baudelaire incontrato da Gauthier nel 1849 all’hótel Pimodan. Se questi fosse proprio solito fare l’Examen de minuit, non sappiamo:
La pendule, sonnant minuit.
ironiquement nous engagé
a nous rappeler quel usage
nous fimes du jour qui s’enfuit;
ma evidentemente quell’umanità che si esprime integrale nel suo libro, essa sì fa realmente quell’esame e si considera religiosamente. Qui è il sentimento cosmico della sua poesia: profondo sentimento della miseria dell’uomo, del serraglio dei suoi vizi, per cui la vita si pone come inferno, come male, come peccato — come esilio dall’Eden — ; e il poeta, prendendone coscienza totalitaria se ne redima; nella catarsi dell’arte per guardare la sua carne, che è la Carne. — corpo e cuore beccati dagli avvoltoi e maciullati dalle nere pantere nell’isola dell’amore, dov’é alzata la forca simbolica (Voyage à Cythère) — i suoi amori terreni, che sono l’Effimero, decomposti dalla fatale putrefazione, mentre lo Spirito ne conserva la forma e l’essenza divina (Charogne).
Vi è qui una concezione estremista del peccato originale? A ogni modo, non siamo in una teologia, perchè la poesia si costruisce in un ordine di concretezza simbolica ed è estranea ad ogni intellettualismo. Senza spostare la lirica dal suo piano, potrebbe esser utile rifoggiare un Baudelaire diverso da quello ateo e satanico che fa il giro delle accademie; ma, in verità, il «cattolicesimo frenetico e sregolato» di cui parla il Souday equivale, in arbitrio, il satanismo di ieri. Basterà allora far notare che la concezione della vita in Baudelaire poeta è troppo concretamente umana per sfuggire alla necessità di far girare ogni teologia intorno a
le spectacle ennuyeux de l’immortel peché
perchè il peccato, appunto, è insopprimibile ed è la vita, una deroga alle leggi dell’assoluto ed una contraddizione dell’eterno. Soltanto un patetico ottimismo può trasformare la vita in un Eden e pensarla conclusa in sé ed a se sufficiente. A patto, s’intende, di negarne la realtà tragica. Il pessimismo che si fonda sulla realtà del patire si risolve, invece, negando ogni redenzione, in un fatalismo disperato. Tra l’uno e l’altro estremo, si pone ogni concezione che vede nella vita una condanna, a cui non è preclusa la via di una santa liberazione. Questa è la mitologia del «peccato originale».
Ma appunto perchè la vita, tutta la vita è condanna, peccato, noia, il Poeta sa che per sottrarsi ad essa non v’è altro rimedio se non la pienezza del patire: la passione della vita; e il suo cuore non si spaventa d’invidiare ogni poveruomo che corre con fervore all’abisso aperto.
et qui, soûl de son sang. préférerait en somme
la douleur à la mori et l’enfer au nèant.
(Le Jeu)
Questo patimento che si fa passione è ciò che fa vibrare sino al canto e al salmo, il dolore e l’inferno dei Fleurs du mal.
•••
La poesia del Baudelaire oscilla tra due poli. Da una parte essa può assorbirsi in quella che è stata definita «eroicità a rovescio» : il sublime del bestiale; dall'altra, illuminarsi tutta, come nei «Phares» : il mondo, dove tutto è impuro, e quello dove tutto è purificato. Sono due estremi: il significato del Baudelaire è nella loro unità, cioè nel loro conflitto.
Il «cortège infernal» dei Sept vieillards e i «monstre disloqués» che «furent jadis des femmes» delle Petites vieilles acquistano un senso nella Charogne.
Può essere utile intendere la costruzione dei Fleurs du mal; certi elementi di Rèvolte e di Le vin sono, infatti, come squarci di un poema: il satanismo e la tesi di un triadismo architettonico. Attraverso l’inferno non passa, intendendo, se non colui che abbia per sua mèta il paradiso, e chi va cercando il paradiso deve aver fatto la sua «rhétorique chez Satan, le rusé doyen» (Epigraphe). Bisogna piangere del «mal perverso» che condanna i peccatori alla vita: questo è il dominio incontrastato del Fato perchè esiste un Fato cristiano. La Révolte è allora l’eroismo insano di Capaneo, il canto dell’orgoglio e della bestemmia.
Bagnata in questa atmosfera di fatalità tragica, ogni perversità, tutt’altro che oggetto di compiacimento sensualistico da parte del Poeta, si rivela un aspetto di quella Necessità contro la quale non c’è forza che valga:
Mais le calme héros, courbé sur sa rapière
regardait le sillage et ne daignait rien voir.
(Don Juan aux enfer)
Data cotesta concezione, l’ideale dell’artista non può essere che l’espressione di grandezza dell’umano che si realizza: tutto ciò è indicazione di un superamento della nostra finitezza e una ricerca di eterno: disprezzo della realtà. Le proporzioni della tragedia sono già un segno di evasione dall’empirico e dall’effimero. L’ideale è «rève d’Eschyle» (L’Idéal).
O vierges, ô demons, ô moustres, o martyre»,
de la réalité grands esprits contempteurs,
chercheuses d’infini..
vous que dans votre enfer mon ime a poursui (vies.
(Femmes damnées)
Ma all’altezza di Don Juan aux Enfer o di Charogne la poesia di Baudelaire è compiuta. I Petits poèmes en prose non dànno un’indicazione diversa: il poeta doveva fermarsi a quell’ideale di bellezza, in cui sono vivi soltanto dei «larges yeux aux clartés éternelles». Tutto ciò che turba con accentuazione oratoria cotesta nettezza di visione è il fondamento di una degenerazione e stanchezza allegoristica, che è la contropartita della poesia baudelairiana. Nelle prose, la plastica efficacia di Chacun sa chimère si dissolve nella banalità della Chambre double.
Dove la visione resta caricata di un senso che spesso attende invano di essere sprigionato, si ha quella compostezza d’immagine, profondità di accento e quel sapore di perfezione che mancano invece in quelle pagine, in cui il poeta tenta un’evasione intellettualistica e riflessa che redima il suo mondo. L’inferno del Baudelaire non può veramente purificarsi se non nel farsi artisticamente consapevole e creatore di sè:
quand saurai-je donc faire
du spectacle vivant de ma triste misère
le travail de mes mains et l’amour de mes yeux?
(Le mauvais moine)
Tutte le volte che il poeta esce dai limiti di un mondo concluso, l’ispirazione gli si dissolve; e una sensibilità cosmica, in un’ordine di poesia assolutamente interiore, non poteva apparire se non appunto per impicciolirsi, come avviene nel famoso sonetto delle Correspondances, dopo l’apertura solenne, — con evidente equilibrio — in un delicato e fragile sensualismo. Così ogni tentativo di contrapporsi a un mondo concreto non può che risolvere questo in un fantasma simbolico (Les aveugles).
La generazione successiva al Baudelaire, il cui compito era quello di staccare — in linea di massima — ogni senso e ogni pienezza d’umano dolore dal travaglio creativo, lavorerà a sviluppare dall’opera di questo contemplatore un filo di musica e a foggiarsi un Baudelaire idillico e musicale. Le Correspondances erano un punto di partenza: e da esse, proprio da quel ch’era estrinseco al Baudelaire e sbocco meramente formale dei Fleurs du mal, attraverso Harmonie du soir e Invitation au voyage, prende origine Verlaine.
Baudelaire era giunto a un punto di perfezione che tendeva a svuotarsi di significato e d’intima necessità. Alleggerito di se stesso, sconfinava allora dalla poesia nella musica.
L’allegorismo e la rettorica erano l’eredità hughiana che pesava anche sui Fleurs du mal; l’idillio e la musica furono il suo dono alle generazioni successive. Tra l’uno e l’altro estremo, sta concluso in sè il suo mondo di peccato di fatalità e di dolore.
Luca Pignato.
Letteratura tedesca.
Anton Wildgans
Sono stato a trovarlo, qualche tempo fa, nella sua casa di Mödling insieme coll’amico Emil Farkas, un colto «Föscher» di Lenau. Fisicamente Wildgans è un colosso: alto, spalle quadrate, torso possente, bel capo severo; larga la fronte, leggermente piccoli gli occhi irrequieti, castagni chiari i capelli, abbrunata la pelle. Quando parla con voce baritonale il suo elegante tedesco, indovini subito la qualità di dicitore.
Non è possibile dimenticare il suo profondo riso cordiale e la sua poderosa andatura. Quando dalla scalinata della sua villa ci scese incontro per il vialetto del giardino, mi parve un Ercole senza clava, stranamente vestito. L’epiteto teutonico — nel senso di primitivo, immaturo, barbarico — sarebbe assai male appropriato anche al Wildgans poeta.
La sua educazione è essenzialmente moderna. Non bisogna dimenticare ch’egli ha tradotto Baudelaire e Pascoli.
Nella sua poesia il decadentismo si traduce in sottile esasperazione. Il poeta decadente è tutto letteratura: la sua coltura è malata di decrepita civiltà. Il suo, non è più amore, ma erotismo.
Nel decadentismo di Wildgans, la poesia è affrancata e salvata da una potente tendenza al concreto e - come in Ste George da un istintivo bisogno di chiarezza espressiva.
C'è un verso nel «Sonette an Ead» di Wildgans che dice: «Es ist vici Stein und Kot auf Gottes Wegen». C'è molto pietrame e fango pel cammino d’Iddio. Anche in Wildgans la tendenza pagana è gagliarda. Traspare già dalla scelta dei temi: donne pubbliche, orgie notturne, ecc. Il particolare lubrico, è, naturalmente — per ragioni estetiche — evitato; e l’erotismo è espresso con quella fatale necessità che giustifica — o vorrebbe — le cose più volgari.
Nell' «Empfängnis» — «Concezione — del volume «Herbstfrühling» — «Primavera dell’autunno» — l’amore di due giovani, nella sua solennità panico, ha quasi del biblico. Naturalmente la mia versione letterale in prosa appena adombra l’originale: «E com’egli, spiando, verso mezzogiorno guardò, sorse dal grano tramato d’oro una giovine donna; e cupamente pensosa alzò lo sguardo al Cielo, che era saturo, grave e basso».
«Un cupo nuvolo, improvvisamente giganteggiando cresce, si gonfia, fende il seno della terra e si discioglie in una silenziosa, calda benedizione».
Nei popolarissimi «Sonetti ad Ead» sensuali sono le immagini, le parole il ritmo. «Io ti ho dato un nome dolce come il vino, e come una bacca mi riempie la bocca.. Profondo nei cieli si abbassa verso la pace il mio sguardo... Nel mio flauto passa il soffio di Dio». «Io so del tuo corpo soltanto la mano, che il tuo volto è tutto anima e lontananza». «Perditi in me! Io sono un cespuglio ed ardo. Dio ha stabilito come si deve conoscere la donna. A che l’anima? L’anima è nulla; è fumo rimasto dopo l’incendio represso. Ma io sono un selvaggio cespuglio ed ardo».
Qualcosa di sanguinoso, di carnale, è in tutto. Il figlio «carne diventata febbre di voluttà». Sulla cima di un monte egli sente «la sua natura umana inseparata dalla gigantesca statura della montagna. Alla terra egli è tenacemente attaccato. Questo marcato sensualismo, nell’arte in genere e in quella di Wildgans in ispecie. si risolve nel bisogno estetico del chiaro del plastico, del ben definito.
L’immagine vuol rivestirsi di muscoli, la parola scorrere nel periodo o nel verso, come il sangue nelle vene.
Wildgans è meticoloso nella cura della forma, nella creazione e rielaborazione dei vocaboli. Gli piace la linea classica, la perspicuità latina: canta il sole e il giorno, ama le nostre forme metriche: quartine, sestine, ottave, e soprattutto il sonetto. «C’è molto di italiano in voi», gli ho osservato a Módling. Egli mi ha corretto: «Forse sarebbe meglio dire: di latino».
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C’è un’altra faccia di Wildgans che, pur in questo abbozzo deve apparire: il Wildgans sentimentale e mistico. Questo secondo aspetto caratteristico del poeta viennese traspare soprattutto dai drammi, che sono una curiosa unione di quotidiano realismo e di trascendente misticismo. I suoi drammi: «Armut», «Liebe», «Dies irae», «Kain», hanno avuto un enorme successo, e gli hanno aperto la via alla Direzione del «Burg-theater», il massimo teatro di Vienna, che ha tradizioni che risalgono a Grillparzer. Lo schema del dramma Wildgansiano è semplice. Comincia quasi sempre con una vicenda comune, quasi volgare. La vita giornaliera vi è rappresentata con tutte le sue minute necessità pratiche. Ma ad un tratto i personaggi sono invasoti da un nuovo spirito, il ritmo della loro vita quotidiana si interrompe, una nuota personalità sopravviene in loro e si sovrappone, non si sa in che modo, sull’antica.
Come per incanto il loro linguaggio si infervora il lirismo e si modula nei ritmi più difficili: dalle loro bocche use alle pedestri frasi, escono versi purissimi. Ma per me i pregi drammatici del Wildgans non consistono in questa artificiosa sovrapposizione di lirismo che non sempre bene si fonde colla favola e colla necessità psicologica dei personaggi; nè ci conviene il simbolico misticismo su cui il dramma vien proiettato. Troppo di frequente l’autore si attarda in scabrose scene veristiche per non tradire una certa compiacenza a dipingere casi ed ambienti che dovrebbero ma non possono spirare nel pubblico orrore, sol perchè in fondo al dramma è posta una tesi morale. Il meglio dei drammi Wildgansiani, per il critico spregiudicato, consiste nell’abilità di condurre con arguta finezza il dialogo o nella sagacia di costruire la scena con esatta percezione del momento psicologico, o nella virtuosità lirica. Questi criteri ci spiegano anche l’entusiasmo che oggi trova Wildgans nel pubblico viennese.
Giovanni Necco.
PIERO GOBETTI — Editore
TORINO — Via XX Settembre, 60
LE VITE
Manca all’Italia una grande collezione di biografie scritte con serietà di critica e gusto d’arte. Le biografie che si usano scrivere tra noi o sono monografie erudite riservate a pochi specialisti o non escono dai generi della letteratura per ragazzi e della banale volgarizzazione.
Noi ci volgiamo invece a studiosi e scrittori di sicura competenza e genialità impegnandoli a esporre i risultati recenti della critica storica e delle loro nuove indagini in una sintesi storica originale in cui la limpidezza dell’esposizione si accompagni con un’erudizione sostanziale, più che sarà possibile sottintesa.
Tali biografie sono dirette al gran pubblico delle persone colte, ma richiedono dal lettore la serietà dovuta all’argomento.
Ogni volume deve essere di circa 200 pagine in-16ª normale. L’indagine della vita e delle opere deve procedere contemporaneamente; devono essere eliminate le indagini e le analisi particolari. Solo per segnare dei termini di confronto non per proporre dei modelli si indicano qui come analoghe al nostro proposito, le biografie di Cavour del Treitzehe e il Nietzche di Halévy.
La collezione si pubblicherà assai rapidamente. I primi volumi impegnati sono i seguenti:
B. Allason: Goethe.
M. Ascoli: Sorel.
C. Avarna di Gualtieri: Ruggiero Settimo.
G. Balsamo Crivelli: Dante.
G. Bertoni: Muratori.
D. Bonardi: Danton.
A. Cajumi: Sainte - Beuve.
U. Calosso: Mazzini.
M. Cardini-Timpanaro: Pericle.
S. Caramella: Kant.
P. Chiminelli: Lutero.
F. Chabod: Machiavelli.
G. Costa: Costantino il Grande
A. Della Corte: Verdi.
G. Debenedetti: Tasso.
G. De Sanctis: Demostene.
L. Emery: Talleyrand.
M. Ferrara: Sella.
A. Ferrabino: Socrate.
G. Ferrero: Giulio Cesare.
G. Gangale: Calvino.
E. Levi: Dostoievschi.
G. Levi della Vida: Maometto.
A. Luzio: Francesco Giuseppe.
M. Missiroli: Guicciardini.
R. Mondolfo: Marx.
R. Mucci: Verlaine.
E. Palmieri: Chateaubriand.
A. Parini: Gobineau.
G. Piazza: Marco Aurelio.
L. Salvatorelli: Bismarck.
G. Sciortino: De Sanctis.
P. Solari: Rabelais.
C. Spellanzon: Napoleone III.
S. Timpanaro: Alessandro Volta.
S. Vitale: Crispi.
A. Valori: Carlo Alberto.
M. Vinciguerra: Shakespeare.
Z. Zini: Rousseau.
Si prendono in considerazione tutte le nuove proposte.