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IL BARETTI

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Anno II — N. 9 — 25 Maggio 1925


SOMMARIO: F. Burzio: Neo-positivismo.L. Pignato: Il significato di Baudelaire. — (Letteratura tedesca) G. Necco: A. Wildgans.U. Morra di Lavriano: Romanticismo mascherato.Ahasvero: Hamlet al Haymarket.

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NEO-POSITIVISMO

Recenti avvenimenti, anche politici, ultimo la discussione in Senato della riforma Gentile, hanno, forse, indotto in taluno il sospetto di una situazione culturale che da tempo si andava preparando oscuramente; come un velo d’acqua sotterraneo, raggiunto un certo livello, comincia qua e là a erompere in polle. L’idealismo filosofico, dominatore incontrastato, da un trentennio, del mondo della cultura, inizia una sua crisi: una riscossa neo-positivista è, forse, in cammino.

Non si tratta di una constatazione trascurabile, ne d’importanza limitata alle sfere erudite: bisognerebbe essere ciechi per negare, o misconoscere, la potenza e varietà degli influssi che la reazione idealistica al positivismo imperante nella seconda metà dell’Ottocento ha esercitato nei più diversi campi. Riconquistato, in virtù di un’offensiva travolgente, l’avito regno filosofico, l’idealismo è subito diventato imperialista, determinando, nell’attiguo dominio della scienza, il sorgere di una autocritica feconda; poi, nella repubblica letteraria e artistica, fino alla torre d’avorio dell’estetica, correnti crociane e bergsoniane, battuto in breccia il verismo, hanno tutto sommosso e rinnovato, toccando gli estremi limiti futurista e cubista. Come nel successivo crollare di una serie di paratie stagne l’irruzione ha indi fatto sbocco in più vasto campo: religioso, da una parte, col modernismo; politico-sociale dall’altra, dove improntò di sè i movimenti più recenti, in sostanza tutti quelli di marca nazionalista ed anti-democratica fino al fascismo; riuscendo, d’altronde a penetrare, col sindacalismo alla Sorel, nella chiusa fortezza socialista. Finalmente, a coronare l’opera, dandole quasi un crisma ufficiale di successo, è asceso, nella persona dei suoi vessilliferi, al fastigio dei Governi.

In trent’anni, ove ci piaccia datare la nuova era dalla frase del Brunetière sulla «bancarotta della scienza», quanto, e quale, cammino percorso! tale da far smorte le grandi Ombre darviniane dell’Ottocento, se, all’Ade, gli epigoni, che vissero abbastanza per avere, da quest’aurora attristato il tramonto, ne avranno riferito. Per il carattere di universalità che ha assunto, per la mole di storia che ha animato, e pur trattandosi di cielo non conchiuso, si può, fin d’ora, riconoscere all’Idealismo un posto di parità con gli altri grandi moti spirituali degli ultimi secoli, l’Illuminismo, il Romanticismo, il Positivismo.

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E’ salito, è naturale che discenda. Ha vinto, e giusto che perda. Ha vissuto, è fatale che muoia. In difetto di altri sintomi, la gran legge del pendolo, quello che Pareto chiamava il «moto ondoso» dei fenomeni sociali, basterebbe a farcelo prevedere, salvo il pericolo di sbagliare per anticipazione. Ma questo è troppo vago, e vogliamo precisare: la crisi sarà breve o lunga, apparente o sostanziale? Qui bisogna andare adagio, invocando più di una volta lo scolastico: distinguo.

Ciò che si prepara, se il nostro fiuto non c’inganna, è un eclisse dell’idealismo come «moda» intellettuale, che era diventata stucchevole quasi quanto il dannunzianismo; e a produrlo saranno cause indirette, le reazioni suscitate da quel moto, che abbiamo descritto, soprattutto nel campo politico ed artistico. Però la moda è indice ambiguo, e nelle sue variazioni conviene distinguere quel che è, per l’appunto, semplice reazione meccanica, sazietà sentimentale, spinta di fattori estranei (puro fenomeno non logico), da quel che è, invece, il riflesso di logiche difficoltà e di intrinseche esigenze insorte sul cammino dello spirito creatore. Le prime cause contano poco, producono alti e bassi; le seconde molto, deviano durevolmente la traiettoria. Le dottrine, più ancora degli uomini, se muoiono veramente, non muoiono per caso, ma per una malattia che portan dentro. La vita dello spirito va concepita come un mare, dove ogni strato è sommosso da strati più profondi; dove anche ciò che alla superficie appare di spume, onde e correnti è solo in parte prodotto dall’umore volùbile del vento. «Moto ondoso» sì, ma con vario periodo, e fino a un certo punto: poi l’onda si fa lenta, a ritmo secolare o millenare; (e la probabile decadenza cattolica, ad esempio, non risente più gl’influssi delle effimere galvanizzazioni alla Papini); finchè al fondo chi sa, può darsi che l’oscillazione cessi, e il moto si faccia progressivo; può darsi che la storia, nelle sue supreme linee, sia davvero ascesa.

Noi non vogliamo qua sondare tali oceanici abissi; però non vogliamo nemmeno stare alla superficie e dichiarare spacciato l’idealismo, questo illustre prodotto del pensiero, solo perchè l'on, Gentile ne abbia fatta un’applicazione scolastica meno felice; o Marinetti ne tragga illazioni sconcertanti; o a qualche ras piaccia piegarne il dettame agli usi della sua graziosa signoria. In vista della crisi che, forse, si approssima, converrà, pertanto, istituire due bilanci: il primo è a nostro parere, favorevole. Nella Borsa filosofica, il titolo appare solido: nonostante l’inizio di speculazioni al ribasso, riteniamo che avveduti finanzieri, alieni da agiotaggi, possano benissimo comperare alla pari. Anche in sede politica, e per restare in Italia, se è vero che l’influsso idealistico si è rivelato, in massima, antidemocratico, è pur vero che, alle compromissioni fasciste di Gentile, fa riscontro il riserbo liberale di Croce; cosicché eventuali burrasche, con cambiamento di pilota, non dovrebbero addirittura capovolgere la barca delle fortune filosofiche. Su altri punti, poi, il glorioso idealismo crociano ci sembra anche più solido. Il pilone dell’estetica è, si da tempo, furiosamente squassato da Sansoni che ce l’hanno su col tempio dell’illustre Filisteo: ma, in cospetto della mole, sono Sansoncini dai capelli corti; taluno, anzi, irrimediabilmente calvo. Quanto alla Economia, all’Etica, alla Storia, è come mordere il macigno; non si delinea, nemmeno lontanamente, un’offensiva. In questo campo, e sebbene, in tempi di nazionalismo, sia carità di patria non gettare olio sul fuoco, un primato italiano ci sembra veramente indiscusso, e duraturo. Altrove, invece, è il tallone di Achille, la malattia organica di cui soffre l’Idealismo: (a parer nostro, beninteso, e per quanto siamo esitanti a esprimere una diversità di opinione da maestri di tanta autorità). E’ nella Logica, o Teoria della Conoscenza, là dove, in base certo, ad altissime vedute speculative, si nega il dualismo del soggetto e dell’oggetto, cioè l’esistenza della Natura, delle cose in sè del mondo esterno; dove si nega, in conseguenza il valore della Scienza. Crediamo che il problema, più che sotto la forma teologica di trascendenza e d’immanenza (che agitò vent’anni fa i campi cattolico e modernista), sia oggi vitale per l’Idealismo sotto quest’altra forma che interessa la Scienza. Lo spirito scientìfico è troppo vigoroso, e prepara una riscossa. Risvegli religiosi sono invece più remoti.

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Al problema del valore filosofico della scienza è dedicata, per l’appunto, un’opera del Meyerson (1), la cui alta importanza non ci sembra sia stata, finora, rilevata presso di noi. Se, in questi tempi bellicosi, piacesse a taluno registrare il primo serio squillo di guerra contro l’Idealismo, non saremmo alieni, per conto nostro, dal riconoscerlo in questo libro. L’argomento, com’è noto, ha dato origine, specialmente in Francia, ad una intera letteratura, anche divulgativa, in cui il nome più noto, per multiple rinomanze è quello del Poincaré: ma l’opera del Meyerson ci sembra superare di assai le sue congeneri; e, comunque, costituirne la più aggiornata manifestazione. Coloro che vorranno conoscere le ragioni, non politiche e superficiali, ma profonde, della imminente crisi dell’Idealismo, lo leggeranno con profitto. Noi, purtroppo, non possiamo qui riassumerle, e ci limitiamo ad indicarne l'ispirazione, il significato, vorremmo dire la posizione storica.

A trent’anni dalla dichiarazione del fallimento della scienza uno spirito unilaterale potrebbe forse parlare, invece, di una sua rivincita, e di «fallimento» della filosofia. Si dimostra, infatti, nel sistema di pensiero che questo libro mirabilmente rappresenta, come la scienza non sia solo quella costruzione «pratica» che vorrebbe l’idealismo; ma, in quella parte della realtà che va sotto il nome di Natura, o mondo fisico, essa sia una vera filosofia, anzi (pur con le sue imperfezioni logiche), l’unica buona filosofia. Quando, è più di un secolo, in uno sforzo titanico di audacia, ma anche eccessivo di ambizione, l’Idealismo ha voluto ridurre tutto alla sua stregua, e soppiantare anche la scienza, esso ha prodotto quella hegeliana «Filosofia della Natura» di cui la storia del pensiero non ricorda fallimento più clamoroso. Il tentativo di «dedurre» logicamente la Natura, con la varietà dei suoi fenomeni, dalle categorie spirituali, diede origine a un mostro. La sconfitta di Hegel su questo punto ebbe come caso particolare anche quella del grande Goethe, e della «teoria dei colori» davanti alla scuola che discendeva da Newton. Il neo-hegelismo (cioè l’idealismo contemporaneo) ha riconosciuto questa sconfitta, e abbandonato l’aborto al suo destino. Ma nulla vi sostituisce, poichè dichiara che una vera filosofia, o scienza, della Natura, non ha da ricercarsi, nè da esistere, non esistendo nemmeno la Natura. Sono però molti gli spiriti che pensano come ciò sia troppo o troppo poco. Essi non possono risolversi ad abbambinare le posizioni del buon senso. Ora, per il buon senso, l’esistenza e la libertà di quella energia intima che chiamiamo lo Spirito è certa non meno ma non più che resistenza della Natura. La posizione del buon senso e dunque una posizione dualistica: la scienza non la nega, la filosofia idealistica sì. Vero è che il dualismo dà origine a contraddizioni logiche; vero è che un’intuizione profonda, se pure oscura, un’esigenza potente del pensiero intravedono questa separazione dello Spirito e delle cose come fittizia, e provvisoria; vero è che passare dal dualismo a un superiore monismo è il problema stesso della filosofia. Ma, se l’esigenza è legittima, non vuol dire che siano vere le risposte che essa ha provocate. Non è forse schematizzare troppo il dire che le due risposte più recenti furono entrambe unilaterali: il Positivismo, (in senso lato) negando lo Spirito, e la sua libertà, a vantaggio della Natura e della sua necessità; l’Idealismo che vi ha reagito con tanto vigore, e successo, negando la Natura a vantaggio dello Spirito. Insufficienti l’uno e l’altro, al prepotere attuale del secondo, risponde, o si prepara (in opere come questa) a rispondere, la contro reazione scientifica.

Cosicchè, se dovessimo riassumere i risultati di un periodo storico, istituendo quel secondo, e più essenziale, «bilancio» dell’idealismo di cui parlammo sopra, diremmo che vincitore sul terreno della storia esso è, o sarà, sconfitto sul terreno della scienza. Scienza e filosofia, questi due grandi prodotti dello spirito, sono entrambi in piedi. Posizione provvisoria, ma inevitabile, il dualismo lascia aperto l’avvenire a nuovi sforzi. E’, oltre tutto, una nobile posizione «liberale». La storia è dura, essa procede per antitesi (almeno alla superficiale) così in politica come nella cultura. Agli eccessi idealistici il vigore dello spirito scientifico reagirà, forse, con un neo-positivismo: l’opera del Meyerson se ne pone fin d’ora, serenamente, al disopra.

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«L’Artista è un uomo per cui il mondo esterno esiste», diceva Théophile Gauthier. «Il filosofo idealista è invece un uomo per cui questo tavolo e questo calamaio non esiste», diceva il Sen, Pais, nella ricordata discussione al Senato: e (sebbene il Gentile insorgesse a protestare), egli poneva così, in forma ironica un’obiezione fondamentale. Il dualismo dello spirito e delle cose è il massimo problema speculativo che si proponga alla mente umana. Nessun filosofo ha potuto veramente risolverlo, nota il Croce, a proposito di Hegel: e, per proprio conto, dichiarava in una polemica col Gentile, di avere solamente «tentato». Sarebbe certo onorevole per la nostra coltura, se il maggiore filosofo italiano, dopo avere segnato di tanta orma i più diversi campi del pensiero, volesse tornare a questo, per «tentare ancora».

Filippo Burzio.


La poesia francese dell ’800.

Il significato di Baudelaire.

L’equivoco hughiano sovrastò su tutta la poesia francese della prima metà del secolo XIX, ma l’invadenza vistosa e giornalistica di Gauthier e redimerà evidenza di un Leconte de Lisle e di un Banville non valsero a confiscare la generazione successiva. Parnassiani e simbolisti si volsero al Baudelaire, che era stato confinato in una letteratura d’eccezione «genere satanico» e ne fecero il maestro dei nuovi ideali.

E in verità, il Baudelaire pose — così come gli antecedenti logici del simbolismo, e quindi di un vero e proprio romanticismo in quanto esaurì nella poesia tutta la sua vita esperimentandovela e trascendendovela (poiché appunto, romanticismo è questo concludersi nel soggetto, risolvendovi tutta la realtà, idea o simbolo) — anche i principi di un influsso lirico e di una teorica del Parnaso.

Certo uno dei motivi dell’opposizione parnassiana al disordine entusiastico della generazione del 1830 è da ricercare nella sentita necessità di ricostruire la consapevolezza volontaristica della creazione (il gusto) nell’affermazione razionalistica del fatto artistico.

Cotesta consapevolezza ebbe il Baudelaire nel delineare la reazione al romanticismo in nome dell’arte pura e nel suo opporre una disciplina di critica all’istrionismo romantico. Questo ci spiega il suo non breve tirocinio alla scuola d’un Poe: il Poetic Principle e la Philosophy of Composition sono l’estrema indicazione programmatica del Parnaso.

Certe sue parole a proposito della «poesia del cuore» dei romantici riecheggiano il Poe in maniera indubitabile. In una conversazione del Poe con Chivers, lo scrittore americano diceva: «Un puro poema è affatto scevro d’ogni elemento di passione. La passione non ha nulla a vedere con la pura poesia: perchè ogni goccia di passione che voi infondete in un poema non fa che... spoetizzarlo...

— Allora, domanda il Chivers, se ciò che voi dite è vero, i due terzi dell’opera di Shakespeare non valgono assolutamente nulla...

— Assolutamente nulla, per certo, disse egli».

La teoria della composizione del Corvo entrava per qualche cosa in quell’abito di padronanza stilistica e in quel calcolo espressivo che sono il segreto della perfezione dei fleurs du mal, come nell’orgoglio di cui il Baudelaire parla nella dedica dei Petits poèmes en prose di «un esprit qui regarde comme le plus grand honneur du poète d’accomplir juste ce qu’il a projeté de faire».

In fondo, cotesta reazione — in un ordine puramente letterario — era l’esigenza pregiudiziale della ricostruzione, dell’armonia classica nel mondo degli oggetti, ed era il punto di partenza per la costruzione di un romanticismo che si collocherà fuori di questo piano, come aspirazione metafisica.

Se il Parnaso fosse riuscito a configurarsi pienamente come reazione al romanticismo hughiano, invece di limitarsi ad esserne la codificazione e la sanzione letteraria, avrebbe riconosciuto il valore totale di Baudelaire: invece il problema di gusto e di disciplina impostato da Baudelaire, come problema di unità di contenuto e forma, restò senza sviluppi e il Mallarmé lo riprendeva, poi, per proprio conto in senso soltanto formale con sensibilità di letterato, ond’egli scriveva (2) al Ghil (a proposito del famoso Traitè du verbe) che rifletteva prooccupazioni sue «il tentativo di posare sin dall’esordio della vita la prima assise di un lavoro, la cui architettura è compiuta sin dal primo giorno», il tentativo, cioè, di «non produrre (fossero pure delle meraviglie) a caso». Ma, in ogni caso, il simbolismo è troppo contiguo al Bergson (cronologicamente e idealmente) per intendere una questione di disciplina intellettuale, e vivrà di slanci e di entusiasmi.

Intuizionisticamente non può darsi disciplina, perchè questa importa anzi l’intervento attivo dell’intelletto nella creazione. «La creazióne con un autore», come dice Paul Valéry. Il simbolismo non poteva sentire una tale necessità se non come suo limite; essa era un’esigenza di superamento.

Si può pensare che il Mallarmé (che amò anche lui, e anche lui tradusse, come Baudelaire, il Poe) al punto di naufragare nel solipsismo lineo cercasse una certezza, di cui non poteva intendere il senso.

Sarà un suo discepolo che in un lungo raccoglimento maturerà il problema e lo risolverà pienamente: il Valéry.

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Parnaso o romanticismo non sono che aspetti estremi del Baudelaire. Baudelaire parnassiano è dunque da intendere in senso costruttivo ed illumina lo sforzo dell’artista nella direzione del mondo psicologico. Da questo mondo oscuro — dove i medici vedono il torbido caos degli istinti — affiorano, egli dice nel poemetto in prosa Le mauvais vitrier, tutti quei demoni maliziosi che ci comandano: il mondo infernale è appunto il mondo che lavora a mistificare con costruzioni sentimentali quel che di irriducibilmente malefico è in noi. C'est le Diable qui tient les fils qui nous remuent!

(Prèface)

Così il Baudelaire non è travagliato da alcuna preoccupazione sostanzialmente romantica: il conflitto tra il mondo e la poesia (Bénédiction) è un conflitto tra Satana e Dio, nè la fantasia lo risolve in sè, in un monismo ascetico, come è avvenuto nei romantici tedeschi.

Satana è realmente tutto il mondo, e ogni giorno, vivendo, noi scendiamo d’un passo verso l'inferno: quivi è tutta la realtà e anche la grandezza tragica della vita. Il mondo è fatto di peccato e di rivolta, di vizio e di bestemmia. E la rivolta è la consolazione di questo nostro inferno, come il dolore n’è la redenzione: il nostro esilio dall’Eden è un castigo, dal quale non ci è dato uscire. Il Principe dell’esilio è il bastone degli esiliati, il padre adottivo di tutti quelli che Dio padre ha cacciati nella sua nera collera dal paradiso terrestre, e insegna, anche ai lebbrosi e ai paria maledetti, il gusto del Paradiso con l’amore.

  1. E Metterson: De l’explication dans les sciences - 2 vol di 800 pag. Payol Patin 1921.»
  2. Cfr. R. Gros - Les dates et les occultes.