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36 il baretti


Letteratura inglese

RUPERT BROOKE

«Scomparve — scrisse di Rupert Brooke Winston Churchill durante la guerra — gioioso, versatile, senza paura, modellato con classica simmetria d’anima e di corpo... La sua voce armoniosa fu soffocata d’un colpo; di essa non rimase che l’eco e la musica: ma essi non morranno».

Safe shall be my going. Secretly armed against all death’s endeavour; Safe though all safety’s lost; safe where men fall; And if these poor limbs die, safest of all.

Nei suoi versi c’è spesso una cerebralità evidente, una struttura raffinata, caratterizzata talora (nella prima produzione), da accenni che rivelano certo influsso francese alla Verlaine («I’d Watched the sorrow of the evening sky... »), accoppiato al culto, professato verso i vent’anni, della letteratura «ninetyish » — Pater, Wilde e Dowson. Di questo suo «decadentismo» si rise — e ne rise anche lui — ma un’ombra gli rimase; se per decadentismo almeno s’intende certa ricercata fusione dell’elemento romantico colla raffinata preziosità della cesellatura e del suono.

Ma accanto a tale ombra — che nei suoi componimenti posteriori s’attenua per una più fusa ricchezza — la vena spontanea, lirica, soverchia subito le impressioni di preziosità; è un Brooke di giovinezza, di entusiasmo, di sensibilità e di passione. Riso, pianto, amore, dolore, humour — desiderio: versi luminosi, sensibili, ora trionfanti di colore in sonetti illuminati come figure di messali — ora pacati in piane andature classicheggianti — ora brevi, spezzati, incalzanti, in canzoni improvvise zampillate dal più rosso cuore del poeta; come quell’indimenticabile Rima di Grantchester, cantata a gola piena in un’ora di nostalgia.

La mescolanza e la varietà degli elementi nell’arte del Brooke non tolgono l’equilibrio all’insieme, che rimane in prevalenza classico di linea e di tendenza. Audace finché si vuole, rimbaudiano anche, come nel criticato sonetto «A Channel Crossing», (una ragazzata per «épater le bourgeois»), l’educazione ricevuta, il culto dei modelli de! passato, gli concedono una linea che non di rado in certi sonetti come The Soldier ricorda il Keats più genuino. Curiosa quindi riesce l’apparente antipatia di Rupert per il cantore d’Endimione, che in una lettera scritta da Figi, nel Pacifico, dov’era andato sulle orme di Stevenson, definisce «sciropposo». * Sciropposo?» Meno agile, meno nervoso, meno moderno certo del biondo poeta di Rugby; che però non si rendeva conto di essergli assai vicino anche nelle sue audacie moderniste.

Come Keats, Rupert ha il culto della Bellezza in senso mistico con toni entusiastici. «Che cos’è il pessimismo? — scriveva da Rugby nel 1910 all’amico Keeling. «Io, per quel che mi riguarda...sento in me stesso un irrompente senso di antipessimismo. Il rimedio (per il pessimismo)... è il Misticismo, o la Vita, non so bene.

E spiega il suo concetto:

«Esso consiste nel considerare la gente e le cose per sè stesse... Sento lo straordinario valore e importanza di tutte le persone che incontro, e di quasi tutto ciò che vedo... M’aggiro per i luoghi, seggo in un treno, e vedo dovunque la gloria e la bellezza essenziale della gente che mi circonda. Posso osservare per esempio un sudicio mercante attempato per delle ore — e amare tutte le sudice rughe sudorose del suo mento, e ogni bottone della sua giacca piena di frittelle... Vi dico che un gottoso mercante di Birmingham è splendido, desiderabile, immortale..»

E poco oltre:

«Mezz’ora di vagabondaggio per una strada, un paese o una stazione ferroviaria rivelano tanta Bellezza che non è possibile non sentirsi irrompere nell’anima un travolgente senso di gioia...».

Rupert ama le cose con un fervore e una semplicità infantile. Il mondo è meraviglioso. Il sole, i profumi, le luci, i sentori, i campi ed il cielo sono affascinanti. Spicca dall’albero della vita il turgido frutto — e lo addenta ridendo, come un ragazzo, senza sensualità. Una delle sue poesie più tipiche — «The Great Lover» — parla di tutto ciò che egli ama:

«I bave been so great a lover: filled my days «So proudly with the Splendour of Love’s praise; e il lungo elenco di cose che segue rivela tutta una gamma di sensibilità: come una chitarra dalle mille corde, percosse tutte insieme ed ognuna vibrante d’una musica e d’una vita diversa.

Rupert ama

La rùvida crosta d’un pane amico — Cibi dai molti sapori — Arcobaleni — L’azzurro fumo amaro del legno — Gocce radiose di piova nella frescura dei fiori... — Le lisce fresche lenzuola che allontanano i pensieri — Il bacio maschio e ruvido delle coperte — Legni granulosi — Nuvole ammassate — La fredda bellezza d’una macchina — Il ristoro dell’acqua bollente — Pellicce al tatto — Il buon odore dei vecchi abiti.

Buche nel suolo — Voci cantanti — Dolore del corpo subito lenito... — Sabbie ferme — La fredda gravità del ferro — ... Il sonno — Luoghi elevati... — Querce — Bacchette scortecciate di fresco — Pozze d’acqua luminosa fra l’erba...

***

La sua vita fu chiara e cordiale. Nato a Rugby nel 1887 ebbe una fanciullezza felice, in ambiente schietto e studioso (suo padre era insegnante del luogo), fra i libri e i giochi atletici. Era entusiasta, esuberante, pieno di vita e di gaiezza; aveva un culto per gli amici, di cui si formò una cerchia elettissima.

Nel 1906 lasciò Rugby per Cambridge dove compì gli studi con frequenti intermezzi e scappate alla vicina «home» di Grantchester (« The old Vicarage»). Nel 1911 pubblicò i primi Poems, variamenti accolti dalla critica. Nello stesso anno viaggiò nel Continente — Francia, Germania e Italia - tornando in patria nell'ottobre. Dappertutto dove si recava scriveva agli amici lettere che accoppiano al calore e all’entusiasmo uno stile incisivo. Tornato dal viaggio continentale nel tardo autunno 1911, trova l'«Old Vicarage» un po' freddo; e scrive a un amico: «Il giardino è immensamente autunnale, triste, misterioso, angusto... Lungo i suoi sentieri mi sento come una mosca su una partitura della Quinta Sinfonia».

Nel maggio 1913 salpa per New-York, il Canada, Vancouver, San Francisco e il Pacifico, in un viaggio che doveva durare oltre un anno. E’ questa la parentesi dei Mari del Sud — Honolulu, Samoa, le isole Figi — a cui appartiene la sua più significativa produzione poetica, Retrospect, e The great Lover.

Fu una parentesi meravigliosa della sua vita. Le sue lettere rivelano quanto egli subisse il fascino delle isole profumate ed esotiche care allo Stevenson. In taluni luoghi — come a Tahiti — si fermò parecchi mesi. «L’Europa s'allontana da me in modo da far spavento» scriveva da Tahiti. «Ho trovato il più meraviglioso luogo del mondo per lavorare e per vivere: una spaziosa veranda su una cerula laguna — una banchina di legno su un'acqua chiara e profonda pei tuffi — e pesci colorati che ti nuotan fra le dita dei piedi... Barche e canoe, fiumi, pesca alla lenza e alla rete — e un cibo ideale: strana pescagione e legumi deliziosi...».

Il distacco da Tahiti per il ritorno fu una pena. «... Fu solo ieri... pensando che avevo lasciato per sempre dietro di me la Croce del Sud... che mi resi conto che m’allontanavo per sempre dalla delicatezza, dalla bellezza e dalla bontà di questa gente: dall’odor delle lagune, dallo scarlatto dei « flamboyants » tropicali, e dal bianco e dall’oro di altri fiori...; mi resi conto che tornavo verso l’America piena di rudezze, di cose repellenti, di gente brutta, di civiltà e di corruzione...».

Nel giugno 1914 era di ritorno in patria; e nell’autunno combatteva già in Belgio colle truppe inglesi. Tornato in Inghilterra agli inizi dei 1915, poco dopo veniva inviato nei Dardanelli col corpo di spedizione alleato. Morì davanti all’isola di Siro a bordo nella nave-ospedale francese « Duguay Trouin » di un colpo di sole preso a Porto Said: dolcemente, come un ragazzo che non s’accorga della fine, dopo aver composto gli ultimi pochi sonetti dove l’esuberanza della sua produzione anteriore si compone di una gravità quasi presaga della fine.

A Siro Rupert Brooke venne sepolto il 23 aprile, giorno di Shakespeare e di San Giorgio.

Andrea Damiano.


Letteratura spagnuola

Araquistain come scrittore di teatro

Da polemista a romanziere satirico, Araquistain passò, si può dire naturalmente; ma ben altro sforzo gli occorse il giorno in cui la sua visione della vita egli volle costringerla nelle strettoie di una tecnica che ha esigenze e limiti presso che assoluti. I due drammi che egli ha scritto fino ad oggi risentirebbero peraltro pochissimo di questo sforzo, almeno in quello che sono tecnica e stile teatrali, se egli si fosse accontentato di restar nello stesso piano di vita al quale lo obbligavano il suo temperamento e la sua vena, decisamente battagliero il primo, sottilmente ironica la seconda. Ma al teatro egli è venuto con ambizioni non so se più vaste ma certamente più profonde: ed ecco allora l'inevitabile: vale a dire la sovrapposizione ideologica alla passione nuova e cruda degli uomini, lo sforzo d’una dimostrazione a compimento d'un dramma d’anime. «La vita e i suoi morti» (che sarà presto conosciuto anche in Italia) è certo fino ad oggi una delle opere più tipiche di teatro uscite dalla penna di un occidentale e d’un meridionale per giunta; ma sarà difficile persuadere un lettore colto che Araquistain, scrivendola, non abbia sofferto il ricordo di Ibsen, o, in ogni modo, degli scrittori nordici. Per mio conto, sono propenso a credere che il dramma sia nato da una passione reale autentica; ma è indubbio d’altronde che lo scrittore il giorno in cui questa passione volle vederla teatrale non seppe sfuggire il peso di una tesi, pur sapendo benissimo che questa lo avrebbe costretto a pensare e, che è anche peggio, a non pensare liberamente. Ma veniamo al dramma. Un giovane di forte intelletto e anche di scrupolosa coscienza. Ottavio, affacciatosi appena alla giovinezza, sa che il padre è morto dopo lunghi anni di sofferenza, tisico. Nessuno ha pensato a nasconderglielo: e, dato il suo temperamento ombroso e indagatore, non sarebbe forse stato possibile. Ricco, figlio unico, libero di sè, sano, Ottavio non avrebbe neppure ragione per dolersi della sua nascita se a un bel momento, o brutto, non cominciasse a pensarci su. Comincia a roderlo il pensiero: prima lentamente e debolmente ma a poco a poco febbrilmente: e infine un giorno tutta la sua anima n’è vinta ed anche il corpo. Egli non sente più neppure la salute fisica che ieri godeva; e allora, ecco, sopravviene la disperazione, il senso dell’inutilità del vivere, la decadenza spirituale. Invano i familiari lottano contro questo male che è solo morale; ogni sforzo a questo fine non solamente non placa il malato ma lo abbatte vieppiù. Comincia allora quello stato morboso della solitudine interiore che nessun medico sa vincere c neppure forse la stessa madre natura. Ma un rimedio la madre lo avrebbe; lo ha anzi dentro di sé ben chiuso da anni; ma come usarlo questo rimedio se nasconde uno dei segreti più gelosi che donna possieda e la cui rivelazione può far germinare nuovi mali ed anche meno sanabili? Come, come dire od un figlio: io ho ingannato tuo padre; tu non sei suo? Ma un medico di famiglia, consiglia alla madre proprio cotesto eroico rimedio: beninteso come menzogna ché egli ignora la verità o forse appena, ma vagamente la intuisce. Il giovane non può essere salvato che a questo patto: perchè il suo male è solo interno e non ci sono farmachi atti a guarire i mali dello spirito. Tentenna tuttavia la madre: chè ella sa quanto geloso amore il figlio nutra per lei: e tra due crolli è difficile una donna scelga: e una madre! Qui il dramma tocca momenti di rara potenza artistica: e queste poche scene fino alla chiusa del secondo atto, sono certamente le più belle del teatro contemporaneo. Ma dopo, si precipita: chè mentre Ottavio lotta tra i due abissi della propria infelicità e per salvarsi dall’uno non vuole precipitare nell’altro, un fatto nuovo sopravviene che lo sospinge a cercare, a costo dell’affetto materno, la propria salvezza fisica e morale: la venuta cioè in paese dell’uomo che la madre un giorno ha amato. La finzione consigliata dal medico s’è insomma risolta in una confessione di avvenimenti reali; ma se questo riesce a rendere più perfetto e più vivo il dramma di martirio della madre, ci lascia poi perplessi nei riguardi di quello di Ottavio: la cui umanità viene troppo a rasentare in queste ultime battute il simbolo o, se volete, l’idea. Infatti Ottavio non è ancora contento della salute recuperata, sia pure a così caro prezzo; e come ieri voleva rifiutare la vita che gli veniva da un tisico, così oggi da un immorale; per crearsela da solo, senza tradizioni e senza pesi atavici. Di qui, il suo ultimo gesto che sa di follia: la distruzione di ogni cosa che gli venga dai morti: e lo slancio deciso ed autonomo verso una vita propria.

«La vita e i suoi morti» che è quanto dire, il diritto di ogni giorno di non guardare indietro ma solo dinanzi a sé; e di non tener conto di quelli che lo hanno generato, inconsapevoli o malvagi o malati e in ogni modo egoisti. Questo, il dramma: che nasconde, come vedete, una tesi, se non nuova, robusta: e che in parte anche la risolve. Dico in parte: perchè quest’uomo, Ottavio, che ha l’esasperazione del libero arbitrio (assoluto non relativo) non sempre soddisfa la nostra sensibilità: e a volte ci appare quasi patologico. Ma questo peraltro non è che il secondo lavoro teatrale di Araquistain (il primo, rappresentato solo per poche sere, non è stato ancora stampato): e non c’è bisogno di riconoscersi profeti dicendo che con un primo passo di questa forza si può fare lungo cammino, ed esprimere in opere più fuse e più umane i problemi e le ansie della nostra inquieta generazione.

Mario Puccini.


Letteratura russa

Ivan smelov: garçon!... - Roman traduit du russe par H. Mongault - Editions Bossard 1925.

L’arte di Ivan Smelov ha solide radici nelle tradizioni del suo paese prima che della sua letteratura. Figlio di mercanti, ne ha derivato l’abito di osservatore, la capacità (caratteristica di una media borghesia recente e incerta tra diversi destini) di vivere ai confini della psicologia operaia e contadina. Se si vuol parlare di letteratura, Smelov ricorda l’interesse per gli umili di Gogol e di Tolstoi, la comprensione di quel che c’è di «mugich» in ogni russo. Nato nel 1873 Smelov ha una formazione singolare: coetaneo di Andreiev, di Sollogub, di Cuprin e poco più vecchio di Balmont, di Bunin, di Bloch, è rimasto estraneo alla loro atmosfera letteraria. Nel suo stile ingenuo e sobrio non si ritrova eco di discussioni di scuole estetiche, nè di sforzi propriamente letterari. Le sue più belle qualità descrittive fanno pensare a qualcosa di antico e di pacato: ogni singolarità di ricerca, ogni scelta di indirizzo ci sfugge. E’ l’arte solida e lontana da ogni bravura dei quarant’anni. Non vi si trova eco di noviziati nè tormento di preparazione: come se Smelov se ne fosse salvato rinunciando alla precocità.

Ricco di elementi di vita, come se l’impegno fosse proprio a raccogliere tesori d’esperienza, è il libro più caratteristico dello S., che il Bossard ci presenta tradotto: qui il tono disincantato del narratore semina poco più che un espediente dell’architettura generale. Il cameriere che racconta la sua vita e le sue tristezze deve naturalmente mettere in contrasto il suo gioco d’indifferenza obbligata («Io conosco il prezzo di ogni cosa...») e le sue riserve di affetti («I miei sentimenti, li tengo per me»). Ma è proprio da questa tristezza dell’autobiografia, — quando non si cade in un sentimentalismo troppo abbandonato eppure non ancora lirico — che prendono rilievo le storie di questo tranquillo realismo. L’atteggiamento dell’autore di fronte a queste lezioni delle cose vorrebbe essere cristiano. Rivoluzionario e rassegnato: ecco un’applicazione di questo cristianesimo russo. Talvolta invece il moralista la vuole aver vinta sul racconto: Smelov ne deriva addirittura dei sensi messianici. Anche a queste contraddizioni d’artista ci ha abituati un altro russo, con pose più solenni, il profeta di Resurrezione. I sogni di Smelov sono meno grandiosi: il suo destino è meno paradossale. Egli ha conosciuto, dopo i messianismi e le rivolte, il tono più compunto di Gorchi.

p. g.


Teatro francese.

G. Marcel

G. Marcel: Le quatuor en fa dièse — Pièce en cinq actes - Paris Plon 1925.

Prima di cercare il teatro d’eccezione Gabriel Marcel s’è reso padrone di un dialogo tra mondano e sentimentale, raffinato attraverso gli esempi di intimismo e le complicazioni psicologiche più sottili. Il suo è il tradizionale teatro d’amore francese, visto nelle consuete soluzioni ottimistiche che si trovano per esempio in Géraldy. E se a questa tradizione egli resta inferiore in agilità di stile lo sostiene per altro una preoccupazione di costruzioni psicologiche che non si può dire classica solo per l’insufficente maestria dell’intrigo e del carattere. Ma in realtà Marcel vorrebbe attenersi al modello più preciso della commedia e introdurvi elementi moderni e complicazioni critiche solo in successivi approfondimenti.

Questa cautela tecnica si può veder bene scomponendo nei suoi termini la storia di Chiara, protagonista di Le quatuor en fa dièse.

In primo piano si ha una cronaca borghese. Chiara: «Je ne suis peut-être qu’une mauvaise femme, qui n’a pas su se faire aimer ». Perchè non ha saputo farsi amare e perchè suo marito la tradisce. Chiara divorzia da Stefano, il mistico della musica. Ma non si può dire che ella affronti con molto coraggio la solitudine. Ascolta volentieri le parole di pietà del fratello di Stefano, Ruggero. E quando la pietà diventa amore, quando Ruggero le propone le nozze si direbbe che Chiara accetti perchè si tratta del fratello di Stefano, perchè è in fondo la sua rivincita. Ma Ruggero è veramente l’ombra di Stefano; Stefano creatore, Ruggero clarté de satellite. Senonche il passato non si può distruggere: i due fratelli si amano e Chiara si riconosce vinta e delusa in Ruggero ombra del fratello. Ella deve confessare il fallimento e rimanere ad assistere i sogni mediocri di Ruggero condannato alla sua debolezza. Questo il dramma borghese e Marcel per non rompere le consuetudini lascia anche sperare una conciliazione, una fine rosea per gli stessi vinti.

Invece che appagarsi di questo intreccio noi dobbiamo cercare gli elementi tragici e irreparabili che l’autore ha introdotto nei luoghi più felici dello svolgimento. Almeno il dramma di Chiara è visto con notevole precisione. Ella ha bisogno di rester maître de soi. Il suo motto è «Je me méfie terriblement de tout ce qui ne se laisse pas nommer. » Può sembrare une femme cerebrale sans véritable sensibilité, imbue de sa personne, sans le moindre tact. Ma non ha tatto perchè vuole rapporti precisi; ha timore della sensibilità perchè teme gli oscuri equivoci, i silenzi doppi. Stefano di fronte a lei è une heureuse nature, pronto a nascondere gli ostacoli, le piccolezze, le contraddizioni sotto una poetica formula mistica, che esalti il suo dilettantismo di grande artista. Qui evidentemente il théâtre d’amour si svolge in un contrasto di logiche, in una complicata vicenda di personalità. Le mariage ne fait que reveler le fond des natures. Le vicende dei due matrimoni di Chiara, che costituiscono il dramma ci rivelano, senza rigidità di formule la sua anima. Ella stessa non fa che raccogliere prove che la chiarezza desiderata non si raggiunge. Nel dialogo della sua ricerca c’è qualcosa di disincantato: certi rapporti hanno un giusto tono freddo e tagliente. Il suo amore successivo e poi complicato per i due fratelli la mette di fronte all’oscurità di rapporti d’affetti troppo delicati e troppo sottintesi. On commence une personalité?. Ecco un altro problema che le resta chiuso. Deux destinées ne peuvent elles se lier l’une à l’autre en pleine clarté? Al vecchio sogno della sua vita ella deve ormai rispondere senza illusioni.

In questa descrizione di disinganno Gabriel Marcel ha saputo conservare un tono ibseniano.

p. g.


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PIERO GOBETTI Direttore responsabile.

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