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68 il baretti

La cultura calabrese

I.

5. — FILOSOFI — In Calabria la filosofia si feconda quasi naturalmente.

Dovremmo affondarci nella seconda metà del secolo scorso per trovare campioni forti e combattivi, i quali, benché vissuti in studi e lotte necessariamente più vaste che non fossero quelle regionali, nella regione ebbero influenza, seguaci avversarii. Lasciamo le «glorie» lontane. Ma, messo in posto d’onore Galluppi, non posiamo tacere il binomio Fiorentino-Acri. C'è per questi due filosofi quel culto che è fatto d’orgoglio e di devozione, e che, passando dal campo dogl’intelettuali, si diffonde e si generalizza quasi per una suggestione ipnotica anche negli strati meno capaci.

Al contrario di Fiorentino, Acri non ha che una parente a Catanzaro, ch’è la famiglia è emigrata a Bologna. Tuttavia, la polemica «serena e turbata» dei due forti campioni — ed Acri a me sembra assai più geniale e originale — , è’troppo celebre per esser dimenticata, e, un momento che ci pensiamo, ce li vediamo umbedue vivi nell’immaginazione e in posizione d’attacco. Certo, per ragioni specialmente storiche, l’influenza del Fiorentino è stata maggiore di quella dell’Acri, benché questi sia morto nel 1913, anche su gl’intellettuali calabresi. L’idealismo del primo si modellava meglio ai bisogni della generazione che cresceva su la tradizione del Risorgimento, e che aveva così validi campioni nella scuola meridionale degli Spaventa. (Noto che sino al 1900, la cultura calabrese è quasi tutta dominata dalla scuola napolitana.) L’altro, che, vinta una borsa di studio, era stato in Germania alla scuola del Trondelenburg, platonico e cattolico, ma forse più aristotelico nel pensiero anche se più platonico come artista della filosofia, che gli sbocciava in pensieri colati in forme originali e perfette, non poteva suscitare nè seguaci nè molti ammiratori, sia in Calabria che in Italia. La sua filosofia trova oggi, e si può dire che va ancora dissodata (i pochi studi del Ferrari, dell’Anile e di qualche altro sono iniziali) - trova un clima più adatto; ma il suo stile, quello stile che è poesia, è così aristocraticamente elevato o personale che soltanto dei privilegiati potranno accostarlo o intenderlo. Una commemorazione di Filippo Meda (crf. I nostri, coll, di Civitas, Milano) fatta nel 1923 al Circolo di Cultura di Catanzaro, ha iniziato la serie delle onoranze che all’Acri si vogliono tributare. E saranno una necessaria riparazione. (All’Università Pontificia di Catanzaro, mons. Pujia nel 1922 e G. M. Ferrari quest’anno, lessero due dotte conferenze su Acri). — Felice Tocco (Catanzaro, 1845-1911), filosofo e storico (cfr. L’Eresia nel Medio Evo, studi Kantiani e altri scritti) non ebbe la fama dei due primi; ma quel che lascia gli assicura il ricordo che gode fra gli studiosi. Ancor meno noto, ma fecondissimo e profondo cultore degli studi filosofici, e specialmente estetici, Nicola Taccone-Gallucci (Mileto, 18417-1905), ha più particolarmente influito con l’opera sua nel campo degli ecclesiastici. Sono interessanti, come indici della sua mentalità, i due lavori con cui questo aristocratioo devoto al Papa e alla Chiesa, ha esordito: Un tributo d’affetto al P. Antonio Bresciani (1865) e un Saggio di Estetica (1867-68) in due volumi; il primo, frutto giovanile d’una devozione affatto esagerata al Bresciani come artista, ma espressione sincera d’una educazione rigidamente cattolica; l’altro, lavoro di sintesi, che dimostra la conoscenza del giovane Taccone della filosofia tedesca e, insieme, la modernità del suo spirito. Il Taccone Gallucci è certo fra i più grandi scrittori calabresi della seconda metà del secolo scorso, e in parte, del nuovo secolo; e il suo Uomo Dio ( Milano, 1881-82), che è l’opera sua maggiore anche se oggi non risponde interamente agli studi più recenti, è una opera monumentale. Già il successo ottenuto a suo tempo è stato completo. Se ne fecero sunti, se ne scrisse su tutte le riviste e i giornali cattolici. L’altra critica ha finto d’ignorarlo: e deve ancora scoprirlo! Gli studi estetici (in Terra nostra anno 1915 — ho contato 42 lavori, fra opuscoli o volumi del T.) sono quelli in cui meglio questo scrittore rivela lo suo qualità speculative e artistiche e con più abbondanza, che, in fatti, se il suo stile, nel calore che lo domina, diviene qualche volta retorico, il più delle volte è governato da un commosso lirismo, che accende la materia che plasma. Sono notevoli questi lavori: Introduzione filosofica allo studio dell’arte indiana (Napoli, 1870) L’evoluzione dell’arte italiana nel secolo XIX (Messina, 1900) e Il Cristianesimo nell’evoluzione storica dell’arte (Napoli, 1906). La produzione del Taccone, varia, interessante sempre, anche quando tratta di storia locale, ha bisogno d’un critico severo e amoroso, capace di imporre alla considerazione di un pubblico vasto uno scrittore tutt’altro che invecchiato.

Di minor forza, Antonino De Bella (Nicotera 1853-1912) lascia alcune opere pregevoli, ch’ebbero il plauso del Bovio e d’altri famosi; ma il suo nome non ha avuti echi.

I viventi non sono elencabili. Ricordo G. M. Ferrari, il successore di Acri a Bologna, al quale la filosofia non ha impedito di sviluppare varie iniziative a favore della regione; Antonio Renda (recente il suo libro su La validità della Religione), catanzarese, uno degli spiriti più originali che abbia dato la Calabria, in questo perìodo; Michele Barillari, serrese, ora all’Università di Messina, dedicatosi agli studi di filosofia del diritto. Ma non è possibile andare oltre; si cade in parzialità ingiuste, anche se involontarie. E chiudo ricordando Francesco A. Ferrari, giovanissimo, che, uscendo improvvisamente dal silenzio dei suoi studi, ha, in tre o quattro anni, pubblicato due volumi su S. Paolo, suscitando critiche nel campo cattolico dove sono state rintracciate reminiscenze di razionalismo karnakiano, ed un volume su La religione del divenire umano (Il Solco, Città di Castello), che, insieme alla ricchezza delle fonti rivelano nell’autore tenutivi sintetici, discutibili certamente, ma che, tuttavia, ci permettono includere questo studioso fra i laici (tanto scarsi, del resto!) più quotati nel campo degli studi religiosi.

6. — STORICI — Dobbiamo distinguere due categorie: storici che si sono occupati della Calabria, benché non calabresi (Paolo Orai, Vincenzo Casagrandi, ecc.) e storici calabresi dedicatisi alla regione. I primi, a contatto della suggestiva terra, che al Lenormant fece scrivere la Grande Grèce, parlano di lui con un amore che commuove. A sentire, o a leggere il Casagrandi, un vecchio settentrionale che insegna all’Università di Catania, si resta davvero colpiti da un amore così intenso che non teme di cadere nella retorica. Ma la retorica, pur troppo, rende impeciati molti degli studiosi di storia locale. Costoro sono assai numerosi, se per storici possiamo intendere anche quelli che, quasi in ogni paese, ne scoprono e ne raccontano la storia. I più alti e severi vengono dal campo ecclesiastico e dalla scuola. Sono più numerosi i primi, chè nel clero gli studi storici ebbero sempre cultori. Già le fonti della storia calabrese bisogna trovarle negli scritti dei frati: Il Barrio, il Fiore, ecc. Dei più noti ricordo tre vescovi: De Lorenzo, Pujia, Domenico Taccone Gallucci, i quali hanno scritto molte pagine, specie di storia ecclesiastica, imprescindibili per diligenza, acutezza, dottrina. Vive soltanto il Pujia, che è anche cultore di studi filosofici. Al Conte Hettore Capialbi, morto da qualche anno, si devono documenti copiosi e scritti assai pregevoli di storia calabrese. Con Francesco Pititto di Mileto, il Capialbi pubblicò dal 1913 a 1918 l’Archivio storico della Calabria, la pubblicazione periodica più seria avuta in questi anni, in cui apparvero studi e documenti interessantissimi. Cito, oltre a scritti di M. Cagiati, di R. Corso, di G. De Mayo la Continuazione dell’Italia Sacra dell’Ughelli (Capialbi), l’Epistolario Ufficiale del Governatore di Calabria Ultra, Lorenzo Cenami (L. Volpicella), Il Cardinale Fabrizio Ruffo, ampio studio di Vincenzo Ruffo, ed una serie considerevole di bibliografie dell’ Orsi e di altri. L’Archivio è una bella raccolta da consultarsi. Altra pubblicazione interessante ma cessata, la Rivista di mons. Cotroneo. E’ impresa difficile soltanto accennare alle principali pubblicazioni — opuscoli, per lo più, che non hanno grande diffusione perchè pubblicati dagli autori, in tipografie locali — di antica storia locale; noto quelle di Vincenzo De Cristo da Cittanova, di Franc. Capalbo, di Francesco Lo Parco, di F. Filia, e passo ad osservare che più scarsa è invece la produzione sul Risorgimento. Superfluo rilevare che sul Murat, fucilato nel Castello di Pizzo, esiste una letteratura non soltanto nazionale, alla quale han contribuito anche i calabresi. Vittorio Viralli, in un’opera voluminosa, ha studiato I Calabresi nel Risorgimento Italiano, cominciando dal 1799. E’ un lavoro organico, ma andrebbo riveduto. L’autore ne conveniva molti anni fa; ignoro se abbia provveduto alla revisione. Altri studi il Viralli ha pubblicato sul Risorgimento (cfr. Conferenze e Discorsi, Messina), ma l’opera sua maggiore resta la prima. Pietro Camardella pubblicò nel 1912 una monografia su I Calabresi della spedizione dei Mille; Giuseppe Portaro, più tardi, Il 1848 a Messina, a Reggio, a Gerace e Giuseppe Messina, recentemente, un breve ma interessante, anche se discutibile lavoro su Il 1799 in Calabria.

Una pubblicazione pregevole è la Rivista Critica di Cultura Calabrese di Domenico Zangari, che si stampa a Napoli. Una storia della Calabria l’ha scritta Oreste Dito; e già Vincenzo Pagano (1832-1922) aveva completato quella del fratello Leopoldo. Del Pagano, scienziato e letterato, ricordo anche il Principio di diritto universale, opera pregevole. Questo scrittore sta nella categoria di quei sacerdoti cattolici che, con Gioberti, Rosmini e Stoppani, fecero della scienza e delle fede una cosa sola.

7. — SCRITTORI SACRI. — Uno studio speciale bisognerebbe dedicarlo agli scrittori sacri. E’ un luogo comune, che trovo ripetuto in opere anche recenti, che le condizioni deplorevoli di analfabetismo della Calabria son dovute specialmente al clero. La verità, invece, è ben altra: e cioè, che, per lungo tempo, soltanto il clero tenne viva la cultura nella regione. Nei seminari calabresi si sono educati non solo i vecchi ma anche i giovani della nostra generazione. Rocco De Zerbi, quando passava dinanzi al Seminario di Oppido Mamertino, si scopriva in segno di riverenza ed era quello che era. In quei seminari è cresciuta sempre una numerosa schiera di studiosi, di latinisti, di letterati, di storici, che io spero che qualcuno raggruppi ed illustri amorosamente. La cultura calabrese è per tre quarti cultura cattolica. Da Padula a De Lorenzo, a L. Taccone-Gallucci, a G. Morabito, a C. Puja a V. Pagano, a Raffaello Caudamone — o la schiera è appena accennata — son tutti sacerdoti:, che in ogni campo hanno portato il loro valido contributo. Sofia Alessio è stato educato in seminario. Nei seminari hanno insegnato maestri insigni, anche se dimenticati.

S’intende che gli studi sacri anche in questo trentennio furono molti e notevoli. Ma qui non posso provarmi nè pure a un oenno. Mi basta aver indicato una fonto sempre feconda di scrittori.

8. — LETTERATI. - Più difficile entrare nel campo generico dei letterati o impossibile in quello dei giovani.

Di Bonaventura Zumbini, il più profondo studioso di Leopardi, non occorre parlare: la sua fama è più che nazionale.

Stanilao De Chiara, morto a Cosenza qualche anno fa, per i suoi studi Danteschi e le sue conferenze in Orsanmichele, ebbe meritata fama oltre la regione. Critico sereno e moderno, molti suoi scritti li dedicò alla Calabria. Il suo saggio sul Padula (nel 1914 aveva scritto la profazione alla ristampa del Monastero di Pambucina, novella dello stesso poeta già pubblicata nel 1842), è un lavoro accurato: edito dal Brutium reca la prefazione di B. Croce. Il Quintieri di Milano pubblicò La mia Calabria del De Chiara, un volume illustrato, che, nel titolo, ricorda Il mio Carso dello Slataper. E’ un lavoro pieno d’entusiasmo per le bellezze della regione. Questo scrittore lascia molti scritti critici. “Meno noto, ma fecondissimo, è Vincenzo Vivaldi da Catanzaro. I tre volumi su le fonti della Gerusalemme Liberata sono l’opera sua maggiore. Un valente traduttore fu Raffaello Condamone (1844-1916), che tradusse, oltre il De Musica di S. Agostino, Il Cantico dei Cantici, L’episoeho di Laocoonte, gran parte delle opere di Lonfellow (Lo studente spagnuolo, La Divina Tragedia) o molte liriche raccolte col titolo di Traduzioni dai poeti inglesi. Traduttore di razza, merita di stare accanto ai più pregiati d’Italia (cfr. il mio opuscolo R. C. Soc. ed. calabrese, Catanzaro, 1925) — Giovanni Potàri già ricordato come poeta dialettale, oltre a qualche lavoro di critica letteraria, ha recentemente pubblicato un volume di «paesi e paesaggi» Terra di Calabria (editore Mauro, Catanzaro, 1925) raggruppando i suoi articoli di impressioni, pubblicati in tanti anni su la Giovane Calabria. Patàri, che è della vecchia guardia milelliana, e s’avvia alla sessantina, è fresco di forze e pieno di vivacità spirituale: il più giovane dei vecchi scrittori calabresi. Il suo stile classicheggiante nella struttura del periodo, è svelto a volte a scatti e quasi sempre ricco di immagini piene di luce. Calabrese nell’anima, è catanzarese nella vivacità del suo eterno buon umore, profuso senza risparmio in quel suo famoso giornale dialettale «Monacheddu», che ricorda tante battaglie e tante risate. La vecchia Catanzaro di trent’anni fa, Patàri l’ha descritta nel Popolo, in certe sue note da «bighellone» piene di gaiezza e, in fondo, di nostalgia. Scrittore di cose varie, è Francesco Filia.

Ma bisogna interrompere la rassegna, perchè molti sono gli scrittori calabresi che, sparsi per l’Italia, nessuno conosce per tali.

V. G. Galati


MONTHERLANT

Il de Montherlant a environ 27 ans. Il appartient a celle generation qui n’a pas subì la guerre comme celle qui l’ont précédée mais qui en face d’elle a pris parti, pour ou contre.

Lui il est de ceux qui se sont engages alars que la peèriode d’enthousiasme était depuis long, temps terminée. Il n’a pas vu la guerre sous la même jour que Duhamel, Dorgelès et Barbusse, il souffre lui aussi mais il neglige de se plaindre, tourni qu’il est tout entierr vers l’action. Qu’on lise de lui «Le Songe» (1) on verra sa pitie pour la femme dèlaistée, pour les Allemands blssè qu’on ne soigne pas, pour son camarade qui meurt à côtè de lui; pitié aussi profonde que celle des écrivains qui avaient quarante ans quand ils firent le guerre, mais sans emphase.

Le souffrance humaine ne devrait être pretez à rhètorique. Elle n’inspire à Montherlant qu‘un attendrisement aussitôt réprime. Moins d’ideologie et plus de pudeur, tel est peut étre le trail de toute celle generation qui a aujourd’hui de vingt-cinq à trente ans.

Aussi ne prenons-nous Montherlant que comme exemple. Nous pourrions aussi bien citer deux jeunes ècrivians du même áge que lui, Hessel l’auteur de «L’Equipage» et Philippe Barrès (le fils de Maurice Barrès) l'auteur de «La Guerre à vingt ans». Tous rapportent de la guerre une autre manière d’évaluer les choses et presque une nouvelle sensibilitè.

Le spectacle quotidien de la mort leur a appris la petitesse de suffrances qui autrefois les curent accablès.Ils refusent désormais à accorder trop d'importance aux femme et à l'amour.

Ils savent le paids de la douleur physique et le sens du mot «sacrifice». Ils éprouvent moins d'angoisse car ils ont connu le grand tragique de la guerre et que tout, aupres, d'elle, leur parait indifferent. Ce n'est pas manque de sensibilité, mais lucide comparation. Rien ne vaut en face d'un néant.

Montherlant reprend ces idées beaucoup d'autres dans son dernier livre: «Chant funèbre pour les morts de Verdun» qui n'est pas un roman comme «Le songe» mais une longue méditation sur la guerre, sur l'amitié et sur la mort. Méditation pleine de formules qu'eût remeca Barrés, car il existe une parenté entre l'esprit de Montherlant et celui de Barrès (qui d'ailleurs se friquentment), et d'idées qu'il eût pu exprimer. Ce livre est plein du souvenir et mêmes de la prétence de Barrès.

Mais phrases sonnent comme celles d'«Amour et dolori sacrum».De l'ironie, du mepris, sourtout un èlan vera la grandeur.

Mais aussi moins de dilettantisme et plus de mauvetè volontaire dans l'action. Ce n'est pas que nous acuillons ègaler, en le comparant, Montherlant a Barrès. Il n'a pas encore fait ses preuves pour cela et trop de distance les separe. Mais il est bien vrai qu'ils ont en commun la même sèchesse dans l'analyse, la même rapiditè de style. Ce qui les sépare, c'est la guerre vécue et le besoin d'action physique.

Montherlant, comme beaucoup d'autres de son âge, a fait la guerre et c'estinvitè d'agir. De puis, revenus à la vie civile, il leur a fallu contenter les bessoins de violence et de lutte. Le port leur a servi de derivatif. Ils se sont jetés sue le ballon rond comme sut l'ennemi. Une literature sportive a pris naissance; que de jeunes se sont faint connaître en célébrant le 100 mètres! Montherlant a été un de ceux qui ont eu le plus de succes et soulevé le plus de discusions dans ce nouveau genre. D'abord dans «Les Paradis à l'ombre des épées», puis dans «Les Onze devant la Porte dorée» il glorifie non pas tant le sport que les qualités éminentes qu'il suppose.

Ce qui est prenant le pas ce qui parait, ce qu'on mesure sur l'Incommensurable, le caractere hierarchique eta ristocratique de l'organisation et de la discipline, la notion du manque de valeur substitué à celle du peché, lœvre de chair jugle nuisible, non de désobeir à une loi écrite dans le ciel, mais d'être un danger pour òle valeur; la juste mesure du peu d'importance réelle qu'ont les résultats, et ce pendant la conduite en tout comme s'ils ètaient de la dernière importance(la vie comme une partie de foot-ball: on convient qu'il faut la prendre au serieux).

Tous ces sentiments, dit Montherlant, sont inspirées par le sport et tout ils font partie de cette philosophie de l'ordre qui a été celle de l'antiquité et qu'il appelle la philosophie du Tibre. Il l'oppose à la philosophie de L'Oronte qui est celle du désordre et du sentiment. Mais le christianisme de quel cóté se trouve-t-il?

Car Montherlant est chrétien, il a même ecrit son premier livre «La Relève du Martin», la glorie de son collège. Mais c'est un christianisme qui ne prend pas au serieux l'evangele et qui resemble au catholicisme de la Renouvance. On a dit que Monthelant était à la fois catholique et nietzechien. C'est juste. Ce qui'il place au-dessus de tout dans le socièté, c'est l'ordre, ce qui'il estime au-dessus de tout chez l'individs, c'est la force, Les vertus qu'il vent pratiquer, ce sont les vertus uniques.

Ne soyons pas surpris après cela qu'il professe un culte pour la civilisation romaine.

En ce moment il écrit un roman dont il n'a pas encore trouvè le title et un èloge des courses de toureaux «Les Bestiaires»: n'a-t-il pas, passè toute son enfance en Espagne et ne rient-il pas encore cette année d'Andalousie? Mais il médite d'ecrire les vies de Brutus et de Julien l'Apostat. Il pense même à venir l'hiver prochain passer quelque temps à Rome. Voir Rome camblerait son vecu: toute sa vie jusque eir, toute son œvre est excès de respect, parce qu'il ne se trouvait pas suffisamment prèparè pour approcher un tel monceau a gloire. Souhaitons qu'il se decide enfin et qu'il se laisse, èblouir par cette Rome auguste et maternelle où nous autres Francais sommes venus à toutes les èpouques pour y retrouver nos origines et notre famille. (Scritto per il Baretti) S. C. Grenier.

NOVITÀ’.


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PIETRO GOBETTI - Direttore responsabile

Tipografia Sociale - Pinerolo.

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