Chè pari a Giove ei pur talor discende
Alla dolcezza d’ospital convito.
N’esulta in cor l’Egizïano, e pende
Da quelle labbra di stupor rapito. 325Se in lui veder nelle battaglie orrende
Credette il divo d’Iside marito,
Or n’udendo il sublime almo sermone,
Pittagora ascoltar pargli e Platone.
De’ suoi gravi di senno alti pensieri 330Fa tesoro la fama; e sì voi pure,
Moli eterne di Cëope e di Meri,
Li parlerete coll’età future.
Il maggior de’ Potenti e de’ guerrieri
Qui, direte, s’assise, e le mature 335Sentenze svolse del profondo petto,
E fu degno di cedro ogni suo detto.
Gli occhi alzando di Cëope al sublime
Monumento, dell’arte immenso affanno,
Contra cui le già stanche e mute lime 340Del tempo vorator dente non hanno, Venti secoli e venti dalle cime Di quella mole a contemplar ci stanno,
Sclamò l’Eroe. L’udì la fama, e disse:
Cadrà quel masso, non quel detto. E scrisse.