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52 TEOCRITO

e smuoverebbe i monti, potesse spuntarla! In amore
spesso par bello ciò che bello non è, Polifemo.

E allor prese a cantare Damèta, e cosí gli rispose.
dameta
L’ho vista, affé di Pane, quando essa colpiva il mio gregge
La vide, sí, quest’occhio mio solo, mio dolce, che luce
dar sin ch’io vivo mi deve; e a casa i presagi suoi tristi
Tèlemo, il vate di guai, si porti, e ci sciali coi figli.
Ma da un bel pezzo, perché si roda, neppure io la guardo,
e un’altra donna dico d’amare. E la bella che m’ode,
sangue di Pane, diviene gelosa, e si strugge, e dal mare
esce agitata, e guarda, tutta ansia, gli spechi e le greggi.
Ed alla cagna ho fischiato, ché contro le latri: una volta
le mugolava d’attorno, sfregandole il viso a le gambe.
Quando piú volte e piú vedrà che la tratto in tal modo,
mi manderà messaggi. Ma io terrò chiusa la porta,
sin che in quest’isola il letto di nozze apprestar non mi giuri.
Ché poi, brutto a vedere non son, come dice la gente.
Nel mare mi guardai giusto ieri, ché c’era bonaccia;
e la mia barba davvero mi parve leggiadra: leggiadro,
a mio giudizio, almeno, quest’unico ciglio: dai denti
fuori sprizzava un raggio piú bianco del marmo di Paro.
E per fuggire il malocchio, tre volte nel sen mi sputai:
ché m’insegnò cosí la vecchia Cotíttari, quella
che il flauto ai mietitori suonava da Scossacavalli.

E, cosí detto, a Dafni die’ un bacio Damèta, gli diede
una sampogna; a lui die’ Dafni un flauto leggiadro.
Damèta il flauto, Dafni bovaro suonò la sampogna,
e sovra l’erba molle danzavano fin le giovenche.
Né l’un vinse, né l’altro; ma invitti rimasero entrambi.