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IDILLIO XXIX 213



II


Ahimè, com’è tremendo questo mio nuovo morbo fatale,
questa d’amor quartana, che da due mesi di già mi strugge
per un fanciullo. E non è tanto bello; ma dovunque il piede
volge, s’effonde grazia; e dalle guance dolcemente ride.
Ed or, questo malanno, quando mi prende, quando mi lascia;
e tal presto sarà l’ardore, ch’io gustar non debba sonno.
Mi passò ieri accanto, e mi lanciò dalle ciglia un’occhiata
sottile, e vergognoso poi distolse gli occhi; e si fe’ rosso.
E Amor diede una stretta tanto piú dolorosa al mio cuore,
ed a casa tornai con la mia piaga, col cruccio nel seno.
E spesso mi rivolsi al cuore mio, con simili parole:
«Che stai facendo? Quale sarà l’ultima delle follie?
Non vedi i miei capelli che biancheggiano già su le tempie?
Smetti, ch’è tempo, di piú fare il giovane, quando non sei.
Tutto fai come quelli che di vita n’han vissuta poca.
E un’altra cosa ancor non vedi: è meglio che lungi rimanga
dai tristi amori dei fanciulli, dalle vane brame, l’uomo
che vede già la propria vita correre come cerbiatto,
e la nave diman forse dovrà spingere all’altra sponda.
Tra i giovani restar può; ma il soave fior di giovinezza
con lui non resta, e la brama lo rode sin ne le midolla,
quand’ei ricorda; e visioni in sogno lo cruccian la notte,
né basta un anno intero a liberarlo dal suo tristo morbo».