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IDILLIO XXI 147

asfalione
Come iersera, stanco del mar, cominciavo a dormire
e poco ero pasciuto, ché tardi, se ben ti rammenti,
s’era cenato, e s’era lasciato lo stomaco sgombro,
sopra una roccia vedevo me stesso all’agguato. Attendevo
i pesci qui, scotendo la canna con l’esca fallace.
E all’amo un di quei grossi rimase: ché pure nel sogno
cagna non v’ha, che l’orsa non sogni; ed io sogno di pesci.
Dunque, pendeva il pesce dall’amo, ed il sangue scorreva,
e per i guizzi, in arco piegata mi s’era la canna.
Ed io, curvato, tese le mani, mi davo da fare:
come pigliar, con un ferro sí debole, un pesce sí grosso?
Per rammentargli la piaga, pian piano lo scossi; ed il filo
insieme rallentai. Stie’ fermo, ed io su lo tirai.
Cosí compiuta fu la fatica, ed il pesce su tratto;
ed era tutto d’oro massiccio, che c’era anche il bollo.
O che sia forse un pesce diletto al Signore del mare,
che d’Anfitrite sia, cerulea Diva, un gioiello?
Cosí, pianin pianino, dall’amo lo venni sciogliendo,
ché non dovesse l’uncino strappar da la bocca dell’oro.
E, persuaso cosí che avevo pescato un tesoro,
giurai che non avrei piú mai posto piede nel mare,
ma, sempre in terra, avrei vissuto da re con quell’oro.
E in questa mi svegliai. Tu, amico, rifletti un momento
a questo fatto: ché quel mio giuramento mi turba.
il compagno
Del giuramento hai paura? Giurato non hai: ché neppure
hai preso il pesce d’oro. L’hai visto, e fu inganno la vista.
Piuttosto, ove non creda di prendere pesci dormendo,
ch’è da sperare in sogno, tu cercati un pesce di carne,
se pur non vuoi morire di fame fra i sogni tuoi d’oro.