Pagina:Idilli di Teocrito (Romagnoli).djvu/165

120 TEOCRITO

e tu, che con tua madre, fanciulla, dei ricchi Efirèi
la gran città proteggi su l’acque di Lisimelèa,
deh!, che una mala sorte da l’isola scacci i nemici,
per la marina sarda, che annuncino ai figli e a le spose,
dei cari lor la strage: sian pochi, da tanti, a contarli;
e i cittadini di nuovo ritornino a star fra le mura
delle città, quante n’ebbe distrutte la furia nemica.
Sian culti i pingui campi; sui pascoli belino i greggi,
pasciuti d’erbe, tante migliaia che niuno le conti;
il viandante che muove ne l’ora del vespero, affretti
il passo innanzi ai buoi che tornano a torme ai presepi;
s’apprestino pei semi novali, allorché la cicala
dai rami effonde il canto; il ragno le reti sue lievi
tessa ne l’armi; e la guerra neppur nominare piú s’oda.
Ed a Cerone eccelsa procaccino gloria i poeti,
ed oltre il mar di Scizia, e dove l’ampissime mura
d’asfalto circondò Semiramide, e resse l’impero.
Uno sono io: molti altri pure aman le figlie di Giove,
che tutti avranno a cuore la sicula fonte Aretusa,
e le sue genti negli inni esaltano e il prode Gerone.
O Grazie, a Etèocle prima dilette, che Orcòmeno minio
amate, la città che un giorno fu l’odio di Tebe,
esser potrà che niuno mi chiami. Però, di gran cuore
andrò da chi mi chiama insiem con le Muse a voi care.
Mai non vi lascerò. Per gli uomini, senza le Grazie,
che v’è di caro? Oh, sempre compagne mi sieno le Grazie!