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IDILLIO XVI 119

presso le genti tutte, che vivo discese nell’Orco,
che via dalla spelonca fuggí del funesto Ciclope,
avrebbe avuta breve la fama: nessun parlerebbe
d’Eumèo porcaro, né di Filesio custode dei bovi,
ignoto anche sarebbe Laerte magnanimo cuore,
se non li avesser nel canto soccorsi i poeti di Acaia.

Origine ha la fama degli uomini sol da le Muse;
ché le ricchezze, chi muore le lascia a godersele i vivi.
Ma vuol tanta fatica contare del pelago i flutti,
quanti ne spinge il vento coi glauchi marosi alla spiaggia
o con la limpida acqua detergon la zolla fangosa,
quanta accostarsi ad un uomo che sia d’avarizia malato.
Buon pro’; se questo è il tuo sentimento: quattrini a palate
t’auguro, e voglia sempre piú grande d’averne. Ma io,
per conto mio, la stima goder, l’amicizia di tutti
m’importa piú che avere gran copia di muli e cavalli;
e vo’ cercando l’uomo che lieto m’accolga, s’io giunga
mai con le Muse; perché scabrosa ai poeti è la via,
quando non sono ad essi vicine le figlie di Giove.

Il cielo ancora stanco non è di guidar mesi ed anni:
molti cavalli, ancora le ruote del sol volgeranno:
un uom sarà per cui converrà ch’io disciolga il mio canto,
che gesta compierà quante Achille o il terribile Aiace,
nei campi del Simèto, ov’è d’Ilo frigio il sepolcro.
Già del terrore il gelo pervade i Fenici, che sede
han dove il sole tramonta, vicino al malleolo di Libia.
Di Siracusa già gl’indigeni, onuste le braccia
sotto gli scudi di giunco, impugnano a mezzo la lancia.
E, pari ai prischi eroi, fra loro Ierone s’appresta,
e le gran chiome equine de l’elmo gli ombreggiano il capo.
Deh Giove, eccelso padre, deh!, tu, pura vergine, Atena,