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72 TEOCRITO

menalca
O Etna, madre mia, dimoro fra concave rupi
anche io, dentro una bella spelonca; e assai pecore e assai
capre posseggo, quante veder se ne possono in sogno,
e sotto il capo e sotto i pie’ me ne giacciono i velli;
e latte e miele il verno per me sta sul fuoco a bollire,
sul fuoco sta la secca faggiòla; e del verno mi curo
quanto chi denti non ha, delle noci, se gli offri una torta.

E ad essi allor battei le mani, ed offersi i regali.
Diedi un randello a Dafni, cresciuto nei campi paterni,
cosí com’era; e sí non l’avrebbe emendato un artista;
ed a quell’altro un guscio di strombo, che un dí fra gli scogli
d’Icaro avevo predato: fra cinque — ché cinque eravamo —
io ne divisi la carne. Menalca die’ fiato in quel guscio.

Salvete, o Muse agresti, salvete, ed il canto ridite
che un giorno a quei pastori cantai, mentre stavo con loro,
ché non mi debbano a somma la lingua gonfiar le vesciche.
S’aman cicala e cicala, formica e formica, sparviere
e sparvïere: a me son cari la Musa ed i canti.
Piena io me n’abbia sempre la casa: ché il sonno piú dolce
non m’è, non Primavera che súbita sbocci, né tanto
i fiori all’api: tanto le Muse io diligo. E chi quelle
miran benigne, immune rimane dai filtri di Circe.