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Quest’ultima dichiarazione mi fece una impressione spiacevole e fin d’allora cominciai ad almanaccare sul modo di possedere una cosa proprio mia, frutto del mio guadagno.

La mamma aveva gettato nella mia giovane anima i germi di quell’alta e dolorosa sete d’indipendenza a cui debbo i gaudii più intensi e i dolori più vivi della mia povera vita travagliata.

Parrebbe strano e non credibile forse che la precocità onde s’informavano tutti i miei atti e le mie sensazioni non si fosse esplicata anche in quei primi palpiti misteriosi, dolcissimi, appena avvertiti, che sono il preludio della trionfale sinfonia dell’amore.

In casa mia veniva di tanto in tanto a farci visita un giovinotto sui vent’anni, nipote di quell’Augusto Pontecchi socio del babbo, di cui ho fatto cenno in uno degli scorsi capitoli. Non era bello e brutto neppure: una faccia buona e insignificante. Impiegato al magazzino militare, vestiva con sufficente spigliatezza la divisa di sottotenente.

In quell’epoca (1863) io leggevo i romanzi del visconte d’Arlincourt: Il Rinnegato e Carlo il Temerario. Quindi avevo l’anima singolarmente disposta alla mestizia e alla... sentimentalità.

Una sera — non so come, nè perchè mi venissero certe idee — volli fingere a me stessa che il buon Augusto (si chiamava anche lui come il suo nonno) intento a giuocare pacificamente a scopa con mio padre e altri due signori, fosse Carlo il Temerario e io... Elodia, la fanciulla amante del tenebroso signore. E cominciai