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IV.

I viaggi d’allora.

Verso la fine del 1856 la mia salute dette un po’ a temere: tossivo, mi lamentavo di dolori alla nuca e di una grande stanchezza nelle gambe. A quei tempi non era così invalso come oggi il costume delle villeggiature: per rimediare all’anemia dei piccini si facevano far loro delle lunghe passeggiate fuori di porta, si dava loro a bere qualche uovo fresco o — se il caso era proprio grave — si mandavano a passar quindici giorni dalla lavandaia.

Ma io, avendo i parenti a Prato, mi trovavo in condizioni relativamente più fortunate di altri bimbi dell’età mia.

Dopo molti discorsi, dopo parecchie indecisioni e non poche perplessità la risoluzione veniva presa definitivamente.

Sicuro: la bambina, l’esile e palliduccia bambina che l’afa soffocante di Firenze aveva ridotta a mal partito, sarebbe andata in cerca di più fresca, di più respirabile temperatura: sarebbe andata a..... Prato, dagli zii Baccini, che abitavano una casa abbastanza tetra, in una strada più che ottusa e melanconica, piena di rimesse e di botteghe di legnaiuolo; ma che aveva il vantaggio inestimabile di esser lontana da Firenze una diecina di miglia.