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bastone, il sangue innocente, la voce tremenda di Dio, tutto veniva narrato, dipinto con portentosa efficacia. Per me la sora Gegia, a far la maestra, aveva sbagliato vocazione. C’era dell’artista, c’era della Rachel in quella donna grande, ossuta, incartapecorita, dagli sguardi fulminei che vi incutevano un religioso terrore. Bisognava sentirla, quando imitando la voce del Signore, faceva rintronare la scuola con la terribile domanda: — Caino, che hai tu fatto di tuo fratello? — Tutte le bambine si stringevano le une alle altre, impaurite: io sola, col mio sorrisetto di donnina incredula, protestavo contro quella collettiva manifestazione di viltà.

— A chi volete bene, bambine: a Caino o ad Abele? — concludeva inevitabilmente la sora Gegia, asciugandosi il sudore.

— Ad Abele! — rispondevano ad una voce tutte quelle povere creaturine palpitanti. E siccome una certa volta io non aprii bocca, la sora Gegia si rivolse a me, chiedendomi con tuono aggressivo:

— E lei, signora Ida, — quando la buona maestra era sdegnata, ci dava sempre del lei e della signora — a chi dei due fratelli vuol bene?

— A Caino! — risposi a testa alta, mentre una vampa di rossore mi saliva alle guance, — a Caino! Le bambine credettero ch’io fossi impazzata e mi guardarono con ansietà. La sora Gegia, poi, suppose che la mia risposta si dovesse attribuire a uno di quei capriccetti inesplicabili di bimba viziata, che cadono ad una buona parola, ad una carezza affettuosa.

Decise di prendere, come suol dirsi, la lepre col carro, e riprese con dolcezza: