Pagina:Ida Baccini, La mia vita ricordi autobiografici.djvu/288

280


l’educazione, l’ingegno naturale: so coglier subito, da buona fiorentina — il lato ridicolo o pomposo di una persona o di una cosa; tanto che posso vantarmi di aver fatto crollare più di una posizione romantica con una freddura o un calembour. E le vittime non mi hanno mai perdonato il tiro.

«Vo al teatro di rado, quando c’è musica italiana: detesto le tragedie, i drammi ibseniani e la nevrosi recitata. Quando lavoro — e lavoro le mie otto ore al giorno — sono intrattabile, selvaggia e non intendo veder nessuno, neppure gli amici più intimi. Ho la fissazione che ogni pagina di meno sia un pezzo di pane rubato alla mia famiglia. Una seconda manìa è quella di voler far la cuoca, manìa innocente che però intimorisce i miei congiunti i quali desidererebbero morir vecchi e di morte naturale».

Queste poche righe, le scrivevo in un articolo di dodici anni sono; né da quel tempo sono mutata di gusti, tutt’altro!

Questo — in brevi tratti — il mio carattere. E se qualche lombrosiano volesse conoscere le mie degenerazioni come letterata non potrei dargli davvero appunti preziosi. Non ho tic, né manìe, non soffro di convulsioni epilettiche, il mio angolo faciale è normalissimo e i miei medici non hanno fatto ancora sul mio conto osservazioni cranioscopiche che meritino di esser pubblicate. Odio i discorsi troppo lunghi, la gente che posa e gli ombrelli. Non so se queste indicazioni sommarie sieno sufficienti a farmi trovare un posto onorevole nel pubblico dei mattoidi; se non bastassero, mi rassegnerò ad esser giudicata una donniciuola purchessia, autrice di sillabari e massaia a tempo avanzato.