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tura, Guido Mazzoni e Pasquale Villari gli levarono dalla strada più di un impaccio; ma non volle sapere d’altro. Era d’obbligo allora scrivere la tesi annuale in latino, ma Manfredo a cui non andava a genio il metodo critico del professore, e trovava assurdo — nella nostra epoca — il pensare e lo scrivere in una lingua morta, scrisse al professore chiedendo di esser dispensato da quella prova. Il chiaro uomo gli rispose gentilmente, ma, com’era naturale, non consentì.

Allora Manfredo, messo alle strette, scrisse in un latino a dir vero non molto elegante, una tesi in cui propugnava un metodo d’insegnamento diverso da quello adoperato dal professore. L’eccellente insegnante, non discusse le idee audacissime del giovane studente, criticò il latino, nè volle concedergli l’approvazione. Allora Manfredo, piuttosto che rinunziare a quello che egli credeva la verità, voltò le spalle all’Istituto di studi superiori, nè vi rimise mai piede, se non nella Biblioteca. Da tutto quel conflitto di sentimenti e di idee, che io non ho mai, neppure una volta discusso, tanto mi dispiace il contrariare le naturali inclinazioni, nacque un acuto saggio critico, serrato e violento, intitolato «La fabbrica dei dottori» e che io pubblicai non è molto, nella mia Cordelia. Ed ecco come mai Manfredo, che ha ingegno e cultura quanta forse non ne hanno molti pazienti ed eruditi dottorini, non è ancora dottore, nè lo diventerà forse mai.

Io capii subito che l’orgoglioso e irruento studentino sarebbe diventato forse un buon giornalista ed anche uno scrittore originale; e lo incoraggiai nei suoi