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XXVIII.
Manfredo Baccini.
Quando, dopo la morte del babbo, della mamma, dell’Egle, rimasi sola, e ad amareggiare di più la mia solitudine concorse una inattesa risoluzione dell’Ebe su cui parlerò più diffusamente a tempo e luogo, potè solo consolarmi il raggio di luce che aveva perennemente rischiarata la mia giovinezza non lieta, quel biondo e pensoso bambino, che oggi nel fiore della gioventù è il mio conforto e il mio aiuto più grande, e al quale volli dedicate queste pagine che riassumono tutta la mia vita di donna e d’artista.
Egli, che non un giorno ha mai abbandonato il mio fianco, e che delle mie cure affettuose e vigilanti dice, con bontà eccessiva, di non poter essermi mai sufficientemente grato, è oggi il mio alter ego più somigliante, il mio segretario più attivo, il mio discepolo più valente, la mia ombra più fedele.
Educato fino dai primissimi anni a tutte le squisitezze del sentimento, anche ora (e percorre omai il venticinquesimo anno) è di una finezza e di una delicatezza quasi femminile. Egli, da fanciullo, fu lasciato sempre libero, non compresso in nessun desiderio, non contrariato in nessuna voglia; tanto che nè la fanciullezza nè l’adolescenza dettero luogo a possibili reazioni da parte sua. Di più, l’ambiente in cui ha vissuto e gli studi fatti gli hanno enormemente giovato, tanto che è