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veva condurlo al sepolcro. Io ignorai però la gravità del male fino agli ultimi mesi, pur facendo tutto quanto era umanamente possibile per migliorarne le condizioni. Quando vidi che i cibi fini e più squisiti non venivano digeriti e che alla deglutizione delle conserve e delle gelatine succedeva immediatamente una reazione dello stomaco, quando finalmente egli stesso si lamentò di un dolore continuo localizzato, il tristissimo dubbio si mutò in certezza; il povero babbo era malato di un cancro allo stomaco.
Come i lettori sapranno benissimo, simili malattie non perdonano. Il male progredisce rapidamente; e nel corso di un anno e mezzo o di due al massimo ha la sua soluzione nella morte dell’individuo. Questa la rigidezza brutale della diagnosi; ma poteva una figliuola amorosa lasciar nulla di intentato anche sapendo assolutamente inutile ad ogni suo sforzo?
Lo assistemmo tutte amorosamente; io, l’Ebe, uscita di poco dal convento e che stava allora con me, ed altre donne gentili. Ma il male era irrimediabile. Le condizioni dello stomaco peggiorarono sempre, finchè il dì 7 aprile 1887 (il venerdì santo) al tocco e mezzo pomeridiano il buon vecchio rese l’anima a Dio. Negli ultimi giorni di vita egli si accorse del suo stato ed ebbe tanta padronanza di sè stesso e tanta lucidezza di spirito da parlarmi di una certa pezza di stoffa nera comprata da lui poche settimana prima di allettarsi, e che giaceva ancora intatta, in una cassetta del cassettone. — «Ne farai un vestito da lutto» — mi disse a mezza voce.
Poi volle dettare da sè stesso la denunzia di morte; e non ebbe bene finchè l’Ebe (immaginiamoci con