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sciatura se ne tornò a casa tranquillamente, dando ad intendere alla povera Egle spaventata non so più quale storiella di sbucciature o di contusioni.

Dopo aver passato qualche anno nel mezzogiorno d’Italia come soldato, avendo sentito dire che a Genova non gli sarebbe stato difficile l’impiegarsi da Florio e Rubattino, prese il treno e vi andò. Infatti, trovò da collocarsi convenientemente, tanto che dopo non molto si unì in matrimonio con una buona ragazza del popolo che gli si era sinceramente affezionata. Da quell’unione nacque un bambino, Andrea, ch’è oggi un fior di giovinetto, laborioso e buono.

Nel 1886 scoppiò il colera a Genova, e in pochi giorni il numero dei casi raggiunse il maximum. Ettore si trovava nel suo ufficio quando, tutto ad un tratto, avvertì i primi sintomi caratteristici del terribile male. Sperò da principio che si trattasse di cosa leggiera; ma quando vide che i dolori viscerali e le nausee crescevano ogni minuto, non si fece più illusioni. Però, nemmeno in quel momento, perse la presenza di spirito. Uscì dall’ufficio, montò in carrozza e si fece condurre fino a casa.

Appena suonato il campanello, l’Alfonsina (sua moglie) si presentò a capo scala. Egli allora, di fondo, senza salire, le gridò: — Alfonsina, fatti coraggio: ho il colera e vado al lazzaretto. Speriamo bene. Non salgo, perchè se dopo sapessero che qui c’è stato un malato di colera ti brucerebbero tutto, e non ti rimarrebbero nemmeno gli occhi per piangere. Addio, Alfonsina, ti racomando il bambino!