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un’affettuosa ed amichevole corrispondenza che durò circa due o tre anni.
Il fervido lavorìo intellettuale dei letterati e degli artisti si manifesta specialmente nelle lettere private, e, più che nelle altre, in quelle confidenziali: là si rivela la spontaneità dell’ispirazione, l’originalità dell’ingegno, l’acume del gusto, la finezza del giudizio. Se tutte le lettere private si potessero pubblicare, è fuor di dubbio che un epistolario varrebbe un romanzo, e forse forse qualche cosellina di più. La lettera è quasi sempre vera; l’opera d’arte no. Il pregiudizio artistico insidia la libertà dello scrittore, che ne subisce l’ascendente senza accorgersene, sacrifica all’uso pur non volendo, cede alla legge senza averne coscienza. L’artista, anche l’artista grande, vero, autentico, recita sempre un po’: la lettera con l’amico, con chi sa capirlo, è lo sfogo, la scusa, il riposo: l’opera è ciò che egli vuol essere; la lettera è lui.
Dal copioso carteggio che ho di Vittorio Bersezio son riuscita a costruire benissimo la sua personalità, pur non avendolo visto mai. L’ammirazione che sempre ho nutrita per lui, non è dipesa soltanto dall’apprezzamento del suo valore letterario, ma anche dall’armonìa di certe note comuni dei nostri caratteri. Gli domandai subito le sue idee in fatto di fede religiosa ed egli mi rispose: «Io sono spiritualista; anzi — rida pure — sono anche un pochino spiritista; non da credere a tutte le panzane che spacciano certi matti, ma da ritenere che di alcuni fenomeni a cui ho assistito, la spiegazione più logica e possibile, sia che fossero prodotti da un’intelligenza e una volontà estranee a quelle degli esperimentatori. Io sono dunque spiritualista e come tale mi