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amata, e i pochi che leggono, o comprano i libri e i giornali li comprano soltanto per divertirsi. Partendosi da questo concetto, ognuno vede benissimo che resta scartata dalla vendita un’enorme quantità di produzione letteraria la quale ingombra inutilmente i magazzini degli editori. Quindi, per assicurare la vita di un giornale, anche per un numero d’anni limitati, bisogna esser molto modici nei compensi ai collaboratori; anzi limitarsi a compensare i più noti e valenti, e neppur quelli con sufficiente larghezza. Moltissimi proprietari di giornali pagano a pagina; con quali criteri artistici e letterari non si sa; ma insomma pagano; e i numerosi grafomani del regno approfittano della situazione per assediare i poveri direttori con blocchi enormi di manoscritti, pieni zeppi di prosa stiracchiata e slavata che cede da tutte le parti come la trippa, ma che empie coscenziosamente i «fogli» della Rivista, di sciocchezze o di inutile retorica.
Ora siccome questo capitolo, un po’ più acido degli altri è destinato specialmente a mostrare quali sieno state nell’ultimo ventennio le condizioni finanziarie della maggior parte degli scrittori italiani e quale rapporto economico sia corso fra gli onorari dovuti a chi produce e i guadagni percepiti da chi specula dirò che il prezzo della collaborazione ai giornali non ha quasi mai superato la media di 25 o 30 lire per articolo. Ben inteso che io parlo dei giornali seri, autorevoli, che hanno già una base sicura; non dei mille fogliucoli «pseudo letterari» che sono gli organi ufficiali del dilettantismo. In quei giornali lì non si paga nessuno e forse neanche il tipografo. Pure i fogliucoli e le rivistuzze si stampano e la concorrenza degli sciocchi, dei