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pochi malevoli. Veramente l’appello era possibile; bisognava ricorrere al Consiglio Superiore; ma non volli adoperare gli estremi rimedi che in ultimo, quando proprio non ne potei più. Corsi a Roma per due volte, cercando di avvicinare, e magari di bistrattare il mio giudice; ma i componenti la commissione fecero a scaricabarili e mi dissero che il «relatore» delle mie opere era a... Frascati. Con quella bella scusa, tutti si professarono miei amici ed ammiratori, ed io non potei sapere chi fosse il vero Pandolfo.

Intanto bisognava modificare, aumentare, diminuire il «libro scolastico» secondo gli intendimenti pedagogici di quei signori, e siccome al mio editore premeva per la diffusione del mio libro nelle scuole, che i volumi fossero approvati, così egli mi esortava a camuffare in modo più ridicolo e più antipedagogico, quelle povere mie opere in cui avevo messo tanto sentimento e tanta arte. Dal mio punto di vista, cioè dal punto di vista di un commerciante, egli aveva pienamente ragione. Non ne aveva dal punto di vista estetico; ma sì! andate a parlare di estetica a un editore, e specialmente a un editore arrabbiato!

Alla terza bocciatura, ingiustificata e ingiustificabile, presi il treno me ne ritornai a Roma, presentando un ricorso al Consiglio Superiore. Appostai nei corridoi della Minerva Pasquale Villari (mi ero già precedentemente intesa col mio buono e caro amico Paolo Lioy) e gli esposi il mio caso. L’on. Villari promise assai frettolosamente di interessarsene e se ne andò con grandi gesti rassicuranti. L’ebbi vinta, e i miei libri dovettero passare. Ritornata a Roma pochi mesi dopo per i miei affari trovai da Aragno alcuni dei