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smilzo e modesto, fu pronto. La difficoltà di trovare un editore fu appianata in men che non si dica dal Dazzi, il quale nel rivolgersi agli editori Paggi, sapeva bene che non gli avrebbero opposto un rifiuto. Il manoscritto, raccomandato caldamente dal maestro, fu letto accettato e... pagato. Per la prima edizione ebbi un compenso di trecento lire, col patto che ne avrei ricevute altre cento ogni volta che si sarebbe fatta una nuova edizione del libretto. A me, assolutamente nuova in materia di contratti, e assolutamente ignara di quel che, in materia commerciale, si chiama un buon affare, il compenso di trecento lire per la prima edizione parve una cosa miracolosa. Non mi pareva possibile che quel povero libruccio che per essermi uscito quasi di getto dal cervello, m’era costato così poca fatica, dovesse valer tanto. L’esito librario delle «Memorie del Pulcino» fu enorme.
Sul primo, ai benevoli amici nessuno potè levar di mente che autore del volume non fosse stato il Dazzi e che sull’accettazione e sulla fortuna del povero libricciuolo non influisse la modesta avvenenza della mia fisonomia. Questa opinione — che sembrerà ridicola oggi, in tempi di femminismo — era più che naturale in quegli anni in cui lo sviluppo della cultura femminile era pressoché odiato. Delle «Memorie di un Pulcino» sono state fatte fino ad oggi parecchie edizioni, e ciascuna edizione, come usavano allora i fratelli Paggi per libri che incontravano il pubblico favore, ebbe una larghissima tiratura. Quindi, dal punto di vista finanziario non credo che i fratelli Paggi, almeno per la vendita di quel volume, abbiano perso molto.