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E perchè il Nencioni ha sentito altamente di sè e dell’arte e perchè egli non l’ha prostituita al successo e al lucro, pochi valorosi han parlato di lui e se qualcun altro gli ha fatto l’onore d’occuparsene, è stato per tributargli una pallida lode o per assomigliarlo al nebuloso Young.

E qui chiediamo al valente articolista della Nuova Antologia su quali criterii ha potuto dar base a quel suo strano paragone: che ci può esser egli di comune fra quel triste e manierato gufo nordico e nostro poeta gentile che se pur talvolta sale sulle tombe, si è unicamente per vedere più da vicino le stelle e l’azzurro di cui è innamorato?

Leggiamo, su, via, una delle Notti del poeta inglese e se dopo quella lettura non ci sentiamo disperati, incerti, avviliti e pallidi di paura, vuol dire che non abbiamo nel cranio se non un po’ d’umore vischioso: ma il Nencioni ci produce tutt’altro affetto: sia che percorriamo con lui le afose corsie dello spedale o i viali sabbiosi d’un giardino abbandonato: sia che egli c’inviti a essergli compagno in quelle sue melanconiche passeggiate campestri, quando il solleone brucia le mèssi e uccide i poveri lavoranti, e in mezzo a quel fuoco campeggia la bianca figura di San Simone Stilita: egli non ci desta nell’anima nulla di fosco o di lugubre. La sua poesia è una musica, è un profumo, è un sospiro ineffabilmente mesto; e lo assomiglierei volentieri a taluna di quelle melodie belliniane che ci fecero piangere ai giorni della nostra giovinezza.

Il dolore di Young è disperazione: nel Nencioni è poesia, è insegnamento, è preghiera.