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fui la prima in Italia a salutarlo pubblicamente poeta, tanto ch’io m’ebbi da Lui una di quelle nervose e vibranti letterine di gratitudine di cui egli solo aveva il segreto. Il mio articolo sul Nencioni comparve nella Gazzetta della Domenica (anno I, n. 30) che si pubblicava a Firenze (editore l’avv. Carlo Pancrazi) nel 1880.

Ed ecco l’articolo:

Le poesie di Enrico Nencioni.

«Certo: se il merito d’un libro dovesse stare in proporzione diretta col successo che esso ottiene, o con le polemiche a cui dà occasione, noi potremmo classificare le poesie di questo nobilissimo giovane fra le mediocrità più o meno appariscenti di quest’ultimo fortunato periodo letterario.

Abbiamo però sottolineato la voce successo perchè ci piacerebbe analizzarne il vero significato.

V’hanno varii successi: quello di stima, il quale si riduce a un freddo e garbato omaggio tributato all’autorità d’un nome o alla sua intemeratezza: v’è il successo d’entusiasmo che si rivela per mezzo di calorose ovazioni, di servili incensamenti, di pazze idolatrie; v’è il successo d’immoralità che ha reso immortali i nomi dell’Aretino e dell’Abate Casti, per tacere di molti altri.

Ora, è evidente che nessuno di questi tre successi è toccato alle poesie del Nencioni: a lui, poeta mite, gentile, soavissimo, non si poteva, infatti, aver l’audacia di stender la mano con l’anima freddamente cortese di chi sa di proteggere una mediocrità; non si poteva urlare al miracolo nè alla maraviglia, perchè in quel delizioso libriccino non v’ha nulla di mastodontico o di strano: molto meno poi il Nencioni poteva