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Fu in quell’occasione che conobbi Pietro Dazzi, esaminatore d’italiano. Il mio componimento (Il dolore educatore) lo colpì non tanto per una certa eleganza di forma quanto per l’originalità delle idee e degli apprezzamenti.
Mi chiese degli schiarimenti sui miei studii, sulle letture fatte fino allora e mi consigliò a dar loro un ordine, un indirizzo determinato sotto la guida d’un buono e colto insegnante.
— Ma un insegnante quale mi consiglia lei e quale lo vorrei io, non si trova così facilmente — osservai sorridendo con malinconia — e ammesso che si trovi, è una merce troppo cara per le mie condizioni economiche. Ella capirà che non ho preso il diploma per far del dilettantismo pedagogico...
— Intendo, intendo — rispose l’egregio uomo diventando rosso come una ragazzina, già dolente di aver provocato quella mia dolorosa risposta. Ma — aggiunse imbarazzatissimo — se ella, pel momento, fosse contenta di un pedante che l’aiutasse a ordinare le sue idee... a stabilire un metodo di studii ben fatti...
— Ebbene? — domandai commossa.
— Ebbene, quel pedante potrei, se crede, esser io. Studieremmo insieme — aggiunse con squisita delicatezza.
Ed ecco come Pietro Dazzi divenne il mio maestro, quel maestro amato a cui dedicai più tardi il mio primo libro: Le memorie d’un pulcino e che, morto da ben sei anni, è ogni giorno più vivo nel mio pensiero riconoscente.