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canti più belli della Divina Commedia e avevo un’infarinatura generale di tutte le letterature straniere moderne: Victor Hugo, la Sand, il De Musset, Saint-Beuve, Goethe, Walter Scott, Lord Byron mi avevano insanabilmente ammaliata.
— L’osso duro lo troverai nella pedagogia — mi disse la Stella con malizia.
Ebbene, no, non lo trovai. I volumi di pedagogia che mi vennero fra le mani, oltre all’essermi cagione d’infinito diletto, furono per me come una rivelazione. Mi parve che una persona molto dotta e molto sensata mi traducesse in belle parole evidenti ciò che da tanto tempo turbinava confusamente nell’animo mio: e quei volumi (mi pare che fossero del Vecchia e del Rayneri) mi furono facile gradino a letture filosofiche più severe nelle quali trovai un vero compiacimento.
L’aritmetica sì, e le aridezze grammaticali mi seccarono un po’ sul principio. Ma, consigliata e aiutata dal Comm. Gustavo Pucci, direttore del nostro Ospedale degl’Innocenti e allora insegnante elementare nelle scuole del Comune, finii con l’innamorarmi anche de’ numeri e durai qualche settimana a comporre e scioglier quesiti, anche complicatucci, così come oggi mi diletto a indovinare sciarade e rebus. La sola analisi logica (non la vera che è fonte di meraviglioso diletto) come s’intende nelle scuole elementari, m’indignava con quelle sue sciocche divisioni e suddivisioni di proposizioni! Ma ne studiai solo quel tanto che poteva occorrermi e non ne volli saper di più.
A farla breve, in tre mesi mi preparai all’esame che fece di me una della tante maestrucce del bello italo regno.