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tista valente, un profondo rispetto. Ma, come sono tutti gli artisti, Vincenzo Cerri era un po’ incoerente, paradossale, strano e fantastico. Se mi fossi promessa a lui in età più avanzata, e non addirittura bambina, quando cioè l’ingegno appena embrionale non poteva ancora aver trovato una giusta espressione e il carattere era ancora nel primo stadio vale a dire vaporosissimo e incertissimo ci saremmo completati assai bene. Invece nè egli capì me, nè io lui.

In lui io non vedevo che il seducente signore ricco ed elegante, il fidanzato poetico e romantico sognato nelle mie solitarie fantasticherie di giovinetta, l’uomo da esaltarsi come l’intimo ideale di una coscienza non ancora formata. Egli in me non indovinò nè le squisitezze del sentimento, nè un’intelligenza, quantunque diversa, che almeno pareggiasse la sua. Molto originale in arte, non lo fu mai nella vita, e la moglie nel suo concetto mediocre non dovè certo mai varcare il limite impostole dalla antica morale essere cioè una brava donna da casa capace di adempiere nel tempo stesso gli uffici più usuali ed elevati; la creatura omnibus, con la quale si può parlare di poesia nei momenti in cui l’uomo è più alto e più degno, salvo poi a, relegarla fra le casseruole o i cenci del bucato, quando in un momento di malumore gli torni in mente quella triste supremazia di maschio e di dominatore che gli è permessa dal codice e concessa dalla tradizione. Sempre franco ed aperto, non nascose però mai, nel breve tempo del fidanzamento, questi lati manchevoli del suo carattere; ed era appunto la violenza dei suoi impulsi e la magnificenza un po’ esagerata della sua condotta che determinava quasi quotidianamente dei