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XVI.
Vincenzo Cerri.
Nel 1865 fui chiesta in isposa dallo scultore livornese Vincenzo Cerri, giovane appartenente a buona famiglia, fornito di mezzi, con promesse di ottimo avvenire. Egli aveva studiato all’Accademia di belle arti in Firenze, sotto la direzione del Duprè e di Aristodemo Costoli. D’ingegno vivo e originale egli si fece presto distinguere nella schiera dei suoi giovani compagni, ed è fuor di dubbio che si sarebbe, con gli anni, procacciata maggior rinomanza artistica se si fosse più curato della stima altrui, nè avesse mostrato sempre un così grande disprezzo per la lode o l’adulazione. Bellissimo della persona, elevato d’ingegno, assai strano di carattere, d’indole fiera e incurante, Vincenzo Cerri poteva rassomigliarsi ad un antico guascone, a un avanzo della vecchia razza leggendaria della Francia cavalleresca, rivissuta per miracolo, nella mediocrità del secolo decimonono. Nulla di più facile che la vista di quel bel giovane e il saperlo bravo, forte, audace, battagliero, impressionasse la fantasia di una ragazzina appena quindicenne, con la testa già un po’ infruscata di romanticismo, e portata per naturale gusto artistico ad illegiadrire con l’immaginazione, persone, fatti e cose. Oltre a questo, la differenza di età (egli era nato nel 1833) mi ispirava una profonda soggezione, e la sua qualità d’artista e d’ar-