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XCVI
Excusazione che fa el peccatore a Dio de non poter far
la penitenzia a la quale da lui è confortato1
— Troppo m’è grande fatica, — Meser, de venirte drieto,
ca ’l mondo è gionto con meco, — voglio a lui satisfare.
— Se vuol satisfare al monno,— figliolo, andarai a lo ’nferno,
e senza niuno cordoglio — ferito serai de coltello,
e pisto serai de martello, — che mai men non te verrane.
— Non posso far penitenza — mangiar una volta la dia,
iacer con la tonica centa — mai non lo softeriría,
emprima me departo da tia — che questo possa durare.
— Figliuol, se da me te parte, — en eterno non seria lieto,
d’ogne ben perdi la parte — e d’ogne mal serai repleto;
lá ove so strida, puza e gran fleto — anderai ad estare.
— Begl me porest predecare — che gli tuoi fatti me mettan gola,
bever voglio e mangiare — mentrunque la vita me dura,
ché l’alma non girá sola — lá unque la vogli tu mandare.
— Dimme perché non hai gola — de questo ch’io te promitto,
parla e non far demora, — ch’io t’amonisco a diritto;
aggiote tratto d’Egipto, — pare che ce vogli tornare.
Quaranta dí degiunai — e stetti per te carcerato,
ben lo potesti emparare, — tanto te fo predecato;
ma, se me te parti da lato, — so che dannato serai.
- ↑ Questa lauda sequente era pur nel dicto libro antiquo ed ancora in alcuni todini, benché paia assai bassa conio la XX in ordine che incomenza: «Oimè, lasso dolente» [Nota del Bonaccorsi].