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guerra per la conquista indegna dei posti. E ne aveva chiesto uno anche lui, non per sè, per il fratello Giulio, e lo aveva ottenuto al Ministero del tesoro. Egli s’era affidato a gli scarsi, incerti proventi della professione d’avvocato: proventi che tuttavia, talvolta, non gli lasciavano al tutto tranquilla la coscienza, non già perchè non li credesse meritato compenso al proprio lavoro, allo zelo; ma perchè la maggior parte delle liti gli venivano per il tramite dei deputati siciliani suoi amici, di Corrado Selmi specialmente, e per parecchie aveva il dubbio, che le avesse vinte, non tanto per la sua bravura, quanto per l’indebita e non gratuita ingerenza di quelli. Ma egli, morto il cognato Michele Del Re, aveva la madre e la sorella vedova e il nipote da mantenere a Girgenti; oltre che a Roma, da parecchi anni ormai, non era più solo.
Certo la madre non ignorava la convivenza di lui a Roma con una donna, di cui per antichi pregiudizii e per la puritana rigidezza dei costumi ella non poteva avere alcuna stima; non glien’aveva mai fatto parola; ma egli sentiva l’aspra condanna nel cuore materno, un’altra amarezza — secondo lui ingiusta — che la madre non gli mostrava per non avvilirlo, por non ferirlo vie più.
Ma forse donna Caterina, in quei momenti, non vi pensava punto, tutt’intesa com’era a porre innanzi al figliuolo, con foga inesausta, insieme coi ricordi luttuosi della famiglia, le condizioni tristissime del paese.
E durante questa fervida, nera descrizione, la sorpresero il canonico Pompeo Agrò e il Mattina.