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rantatrè esclusi, la aveva allora invitata ad andare con lui a Malta, suo luogo d’esilio, a patto però che avesse abbandonato per sempre Stefano Auriti. Lei? Aveva rifiutato sdegnosamente; e con più sdegno aveva poi rifiutato la limosina del fratello Ippolito, il quale con altri pochi indegni della nobiltà siciliana era andato a ossequiar Satriano a Palermo, e ne aveva ottenuto la restituzione dei beni confiscati al padre. Ed era andata a Torino col marito, tutti e due sperduti e come ciechi, a mendicare per quel figlioletto la vita.

Nessuno degli esuli, dei fuorusciti siciliani colà aveva voluto credere dapprima, che ella di così cospicui natali, unica figliuola femmina del Principe di Laurentano non avesse portato nulla con sè nè ricevesse soccorsi dalla famiglia; e Stefano Auriti era stato perciò in tutti i modi ostacolato dagli stessi compagni di sventura nella ricerca affannosa d’un posticino che gli avesse dato pane, solo pano per la moglie e per sè. E allora ella s’era gravemente ammalata, e per cinque mesi era stata in un ospedale, ricoverata per carità dopo infiniti stenti e per carità il piccolo Roberto era stato allevato in un altro ospizio. S’eran ravveduti finalmente e commossi i compagni d’esilio e avevano ajutato a gara Stefano Auriti. Uscita dall’ospedale, ella aveva ricevuto la notizia che il padre, don Gerlando Laurentano, era morto volontariamente a Bùrmula, di veleno.

Dei dodici anni passati a Torino, fino al 1860, donna Caterina serbava ormai una memoria vaga confusa, come d’una vita non vissuta propriamente da lei, ma piuttosto immaginata in un sogno strano e violento, in cui tuttavia sprazzavano visioni liete qualche momento felice e ardente, d’entusiasmo patriottico.