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Donna Caterina aveva condiviso strettamente questa clausura della figlia, vestita anch’essa di nero, sempre, fin dal 1860, data della morte eroica del marito, a Milazzo.
Alta di statura, rigida, magra, ella non aveva però l’aria di mesta e calma rassegnazione della figlia. I continui, atroci dolori sofferti, la macerazione cupa dell’orgoglio, la fierezza del carattere che, a costo d’incredibili sacrifizii, non s’era mai smentita di fronte alle più crudeli avversità della sorte, le avevano alterato così i lineamenti del volto, che nessuna traccia esso serbava più, ormai, dell’antica bellezza. Il naso le si era allungato, affilato e teso sulla bocca vizza, qua e là rientrante per la perdita di alcuni denti; le gote le si erano affossate; aguzzato il mento. Ma soprattutto gli occhi, sotto le folte sopracciglia nere, mostravano la rovina di quel volto: le pàlpebre s’eran rilassate, una più una meno; e quell’occhio più dell’altro socchiuso, dallo sguardo lento, velato d’intensa angoscia, conferiva a quella faccia spenta, cèrea, l’aspetto d’una maschera orribilmente dolorosa. I capelli, intanto, le erano rimasti nerissimi e lucidi, quasi per dileggio, per far risaltare meglio lo scempio di quelle fattezze e smentir la credenza che i dolori facciano incanutire.
Tutto, tutto aveva sofferto donna Caterina Laurentano, anche la fame, lei nata nel fasto, allevata e cresciuta fra gli splendori d’una casa principesca: la fame, quando, domata la rivoluzione del 1848, a diciotto anni, col primo figliuolo neonato, Roberto, aveva dovuto seguire nell’esilio, in Piemonte, il marito, escluso con altri quarantatrè dall’amnistia, e condannato alla confisca dei pochi beni. Il padre, don Gerlando Laurentano, anch’egli tra quei qua-