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rela, se la santa religione non consentirà a quel farabutto di dar conto delle turpitudini, che pure gli ha permesso di sfognare.

— La religione, scusi, lasciamola stare, cavaliere, — disse Pompeo Agrò pacatamente. — Non c’entra e.... mi lasci dire! non c’entra neppure il Capolino.

— Come no?

— Mi lasci dire. Io so chi ha scritto l’articolo, quella sozzura. Il Préola, il Préola venuto stamani da me, non so da chi spedito.... Brutto ingrato! feccia d’uomo!

— Ma il Capolino, — obbiettò il Mattina, — è direttore del giornale e ha lasciato passar l’articolo.

— Giurerei, metterei le mani sul fuoco, — rispose il Canonico, — che non lo lesse prima. È mio avversario, veda, eppure lo riconosco incapace d’una siffatta bassezza.... E ora, che troveremo in casa di Roberto?


La bocca amara.


Donna Caterina Auriti-Laurentano abitava con la figlia Anna, vedova anch’essa, e col nipote, una vecchia e triste casa sotto la Badìa Grande.

La casa era appartenuta a Michele Del Re, marito di Anna, che null’altro aveva potuto lasciare in eredità alla vedova giovanissima, all’unico figliuolo, Antonio, che ora aveva circa diciott’anni.

Vi si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati dai cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buje come antri, botteghe per lo più di fabbricatori di pasta al tornio stesa lì su canne e cavalletti ad