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Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto d’un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo.

Le folte siepi di fichidindia, o di rovi secchi, o di agavi, e le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente, che reggeva un cancello scontorto e arrugginito, o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anzichè conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti — per la maggior parte campagnuoli e carrettieri — che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene. Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col timido volo raccolto delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva di mettere neppure un piccolo lamento in mezzo a tanto squallore.

Da un pezzo per quello stradone sfangava, sbruffando a ora a ora, la vecchia giumenta bianca di Placido Sciaralla, esortata amorevolmente dal padrone avvilito, con le mani paonazze, gronchie dal freddo, tutto ristretto in sè contro il vento e la pioggia, nella vivace uniforme di soldato borbonico: calzoni rossi, cappotto turchino.

— Coraggio, Titina!

E il fiocco del berretto a barca, di bassa tenuta, pendulo sul davanti, andava in qua e in là, quasi battendo la solfa al trotto stracco della povera giumenta. Dei rari passanti a piedi o su pigri asinelli, qualcuno che ignorava come qualmente il principe don