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— E ti tratterrai molto?
— Non so.
Dimostrava chiaramente il Verònica, con quelle secche risposte, che voleva restar chiuso in sè, per non darsi importanza con ciò che — volendo — avrebbe potuto dire.
Difatti il suo còmpito, adesso, era questo: mostrarsi seccato, anzi stanco e sfiduciato. Per sua disgrazia, egli — e tutti lo sapevano — aveva un ideale: la Patria, rappresentata, anzi incarnata tutta quanta nella persona d’un vecchio glorioso statista battuto alcuni anni addietro in una tumultuosa seduta parlamentare, dopo una lotta piccina e sleale. Per questo ministro si era cimentato in tanti e tanti duelli, riportandone quasi sempre la peggio; aveva respinto su i giornali, con inaudita violenza di linguaggio, le ingiurie degli oppositori. Ma ormai, caduto quel ministro, anche la patria era caduta: la canaglia pigmea trionfava: non era noja, la sua; era schifo di vivere, ormai. Non credeva minimamente che Roberto Auriti potesse vincere, quantunque sostenuto dal Governo; ma il suo Vecchio venerato — che ancora intorno all’avvenire della patria s’illudeva come un fanciullo — gli aveva imposto di recarsi a Girgenti a combattere per l’Auriti; sapeva che questi, più che per le premure del Governo s’era piegato ad accettare la lotta per la spinta del vecchio statista; ed eccolo a Girgenti. Tanto per non venir meno al dovere, rispondeva ora all’invito dell’Agrò, d’un canonico, lui che amava i preti quanto il fumo negli occhi. C’era; bisognava che s’adattasse. Non ostante però la sfiducia con cui s’era lasciato andare a quella impresa elettorale, si sentiva alquanto stizzito, ora, nel vedersi messo alla pari con un Mattina qualunque, appajato con costui nella pic-