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il frutto, eccolo là, bene in vista, che diceva: “Questo è fatto. Portate via!„ Stese una mano a uno di quei mucchietti, ne prese un pizzico e strofinò le dita. Niente! Neanche polvere.... E, guardandosi i polpastrelli dell’indice e del pollice, andò a sedere su una comoda poltrona accanto al canapè. Seduto, la scosse un po’, come per accertarsi della solidità.

— Neanche polvere.... Niente!

Con una smorfia, trasse dal tavolinetto tondo innanzi al canapè un album, in capo al quale era il ritratto del padrone di casa, il canonico Agrò.

Era sempre parso al Mattina che il canonico Pompeo Agrò avesse una strana somiglianza con un uccellaccio, di cui non rammentava il nome. Certo il naso, largo alla base, acuminato in punta, s’allungava in quel volto come un becco. Era però negli occhietti grigi, vivi, sotto la fronte alta e angusta, tutta la malizia astuta, sottile e tenace, di cui l’Agrò godeva fama.

Il Mattina esaminò quel viso, come se nei tratti di esso volesse scorgere la cagione dell’invito ricevuto la sera avanti. Che diamine poteva voler da lui l’Agrò? Il dissidio di questo canonico gran signore col partito clericale, dissidio che suscitava tanto scandalo in paese, era proprio proprio vero, o non piuttosto un atteggiamento concertato, insidioso, per tradir la buona fede dell’Auriti, penetrar nel campo avversario e sorprenderne le mosse? Eh, a fidarsi d’una volpe.... Quel colloquio segreto col Préola.... Fosse tutto un tranello?

Alzò gli occhi, volse di nuovo lo sguardo attorno e di nuovo dall’immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti senz’uso e senza vita si sentì turbato, quasi che essi, per averne egli scoperto le magagne, lo spiassero ora più ostili.