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Laurentano, ch’egli venerava e della cui amicizia si onorava. No, no: preferiva credere piuttosto che l’Auriti fosse venuto a Girgenti solo per riveder la madre e la sorella.

— Ma che dice, avvocato? — proruppe Marco Préola, scrollandosi da le spalle quel lungo, faticoso discorso, col quale Capolino, senza parere, aveva voluto dare un saggio delle sue attitudini politiche.

— Se sono andati a prenderlo alla stazione quattro mascalzoni, studentelli dell’Istituto Tecnico? se sono arrivate in paese la mafia e la massoneria, capitanate da Guido Verònica e da Giambattista Mattina? Non c’è più dubbio, le dico! È venuto per le elezioni....

Mentre Capolino e il Préola discutevano tra loro, gli occhi, il naso, la bocca di don Cosmo facevano una mimica speciosissima: si strizzavano, s’arricciavano, si storcevano.... Vivendo in quell’esilio, assorto sempre in pensieri eterni, con gli occhi alle stelle, o al mare lì sotto, o alla campagna solitaria intorno, ora, così investito da tutte quelle notizie piccine, si sentiva come pinzato da tanti insettucci fastidiosi.

— Gesù! Gesù! Pare impossibile.... Quante minchionerie....

— E allora, un bicchiere di vino, si-don Co’, — esclamò, per concluder bene. Marco Préola. — Vossignoria mi deve fare la grazia d’un bicchiere di vino. Non ne posso più! Ho girato tutta Girgenti per trovare il nostro carissimo avvocato; m’hanno detto che si trovava qua a Valsanìa, e subito mi sono precipitato a piedi per la Spina Santa. Mi guardino! Ho la gola, propriamente, arsa.

— Andate, andate a bere a la villa, — gli rispose don Cosmo.