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in fondo al viale un uomo, che veniva loro incontro di corsa, gesticolando.

— Chi è là? — domandò, arrestandosi, accigliato. Era Marco Préola, tutto in sudore, arrangolato, impolverato, con le calze ricadute su le scarpacce rotte. Stanco morto.

— Ci siamo! ci siamo! — si mise a gridare, appressandosi. — È arrivato!

— L’Auriti? — domandò Capolino.

— Sissignore! — riprese il Préola. — Per le elezioni: non c’è più dubbio! Vengo di corsa apposta da Girgenti.

Si tolse il cappelluccio roccioso, e con un fazzoletto sudicio s’asciugò il sudore che gli grondava dal capo tignoso.

— Mio nipote? — domandò, frastornato, stupito, don Cosmo.

Subito Capolino, con aria rammaricata, prese a informarlo e delle dimissioni del Fazello, e delle premure che si facevano a lui perchè accettasse la candidatura, e delle voci che correvano a Girgenti su questa venuta inattesa di Roberto Auriti. Voci.... voci a cui egli, Capolino, non voleva prestar fede per due ragioni. Prima, per il rispetto che aveva per l’Auriti, rispetto che non gli consentiva di supporre che, non chiamato, egli venisse a contendere un posto, che il Fazello lasciava volontariamente. La compagine del partito, che rappresentava la maggioranza del paese, come per tante prove indiscutibili si era veduto, rimaneva salda, anche dopo il ritiro di Giacinto Fazello. L’altra ragione era più intima, ed era questa: che gli sarebbe doluto, troppo doluto, ecco, d’aver per avversario non temibile, in una lotta impari, uno che, non ostante le divergenze d’opinioni in famiglia, era parente pur sempre dei