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don Cosmo. — Amico mio. Viene a trovarmi qua, qualche domenica, da Porto Empedocle.

— Saprà dunque che sta con Flaminio, adesso? — soggiunse Capolino. — Flaminio lo levò dalle stadere e gli diede un posto nel suo gran deposito di zolfi su la spiaggia di levante. Al figlio Aurelio, poi, volle dar lui la riuscita, senza badare a spese; non solo, ma se lo tolse con sè, lo fece crescere in casa sua, coi figliuoli, con Dianuccia e con quell’altro bimbo che gli morì. Anche questa disgrazia contribuì certo a fargli crescere l’affetto per il giovine. Ma, affetto, dico, fino a un certo segno. Per la stessa ragione per cui ora non darebbe la figlia a Ninì De Vincentis, non la darebbe mai, m’immagino, neanche ad Aurelio Costa, suo dipendente, si figuri!

— Mah! — esclamò don Cosmo, scrollando le spalle. — Ricco com’è.... con una figlia sola....

— Eh no.... eh no..., — rispose Capolino. — Capisco, a un caso di lui, tutte le ricchezze cascheranno per forza in mano a qualcuno, a un genero, a quello che sarà. Ma vorrà ben pesarlo, prima, Flaminio! Non è uomo da rosee romanticherie. Può averne la figlia.... E, romanticherie nel vero senso della parola, badi! Perchè, di questa sua vera e segreta malattia sono a conoscenza io, per certe mio ragioni particolari; ne è a conoscenza, credo, anche Flaminio, o almeno ne ha il sospetto; ma lui, l’ingegnere Costa (ottimo giovine, badiamo! giovine solido, cosciente del suo stato e di quanto deve al suo benefattore) non ne sa nulla di nulla, non se l’immagina neppur lontanamente; glielo posso assicurare, perchè ne ho una prova di fatto, intima. L’ingegnere....

A questo punto Capolino s’interruppe, scorgendo