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anzi l’opposizione incompatibile tra i due modi di pensare e di sentire del Salvo e di don Cosmo, gli piaceva di supporre che qualche attrito, qualche urto potesse nascere dal soggiorno di quello a Valsanìa. Era così astratta e solitaria l’anima di don Cosmo, che la vita comune non riusciva a penetrargli nella coscienza con tutti quegli infingimenti e quelle arti e quelle persuasioni, che spontaneamente la trasfigurano agli altri, e spesso, perciò, dalla gelida vetta della sua stoica noncuranza lasciava precipitar come valanghe le verità più crude.
— Uh quanti libri! — esclamò il Capolino entrando. — Già lei studia sempre.... Romagnosi, Rosmini, Hegel, Kant....
A ogni nome letto sul dorso di quei libri sgranava gli occhi, come se vi ponesse punti esclamativi sempre più sperticati.
— Filosofia, eh?
— Poesia! — sospirò don Cosmo, con un gesto vago della mano, socchiudendo gli occhi.
— Come come? Don Cosmo, non capisco.
— Eh sì, — raffermò il Laurentano, con un nuovo sospiro. — Da studiare, signor mio, poco o niente: c’è da godere della grandezza, ecco, della grandezza dell’ingegnaccio umano, che su un’ipotesi, cioè su una nuvola, mi spiego? fabbrica castelli, castellucci, castellacci: tutti questi varii sistemi filosofici, caro avvocato, che mi pajono.... sapete che mi pajono? chiese, chiosine, chiesucce, chiesacce, di vario stile, campate in aria....
— Ah già, ah già.... — cercò d’interrompere Capolino, grattandosi con un dito la nuca.
Ma don Cosmo, che non parlava mai, toccato giusto su quell’unico tasto sensibile, non seppe trattenersi: