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scinone con Ninì De Vincentis, che gli andava dietro come un cagnolino sperduto.
— Scaricate! — ripetè uno dei servi rifacendo tra le risate dei compagni il tono di voce e il gesto imperioso di quel padrone improvvisato.
Don Cosmo si aggirava come una mosca senza capo per le stanze lavate di fresco da donna Sara, la quale fin dal giorno avanti, appena saputa la notizia della prossima venuta dei Salvo, s’era data un gran da fare e aveva anche persuaso a don Cosmo di fare sgomberar le stanze della decrepita mobilia, perchè gli ospiti ricconi non vedessero tutta quella miseria in una casa di principi.
— Don Cosmo onorandissimo! — esclamò Capolino, scoprendolo alla fine in una stanza, dopo aver girato anche lui di qua e di là per trovarlo. — In gran confusione, eh? Perbacco!
— No, no, — s’affrettò a rispondere don Cosmo, per troncar subito le cerimonie, con le nari arricciate per il lezzo acre di muffa, che ammorbava il cascinone, umido ancora per l’insolita lavatura recente. — Cercavo una stanza appartata, dove starmene senza recare incomodo....
Capolino fece per protestare; ma don Cosmo lo arrestò a tempo:
— Lasciatemi dire! Ecco.... comodo io, comodi loro: va bene così? In capo, in capo, tenete in capo!
Alzò una mano, così dicendo, a carezzare l’elegantissima barbetta nera di Ninì De Vincentis.
— Ti sei fatto bello, figliuolo mio! Come sono vecchio io intanto. Signore benedetto! E tuo fratello Vincente? sempre arabista?
— Sempre! — rispose Ninì, sorridendo.
— Ah! Quei quattordici volumi d’arabo manoscritti dovrebbero pesare come tanti macigni, nel