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grave sgarbo per lo meno, non aver risposta; prese dunque un umile foglietto di carta ingiallito; intinse la penna tutta aggrumata in una bottiglina d’inchiostro rugginoso e, in piedi, lì sul piano di marmo del cassettone, si mise a ponzar la risposta, che in fine, dopo molto stento, gli uscì in questi termini:
Da Valsanìa li 22 di settembre del 1892.
Caro mio Ippolito,
Tu forse non sai in quali miserevoli condizioni sia ridotta questa abbandonata stambergaccia, dove io solamente posso abitare, che mi considero già fuori di questo mondaccio, e non me ne lagno! Se tu stimi, ciò non per tanto, che non si possa fare di meno, che ci vengano a rusticare li Salvo; abbi, ti prego, l’avvertenza di prevenirli che qua difettiamo di tutto, e che però seco loro si portino tutte quelle masserizie di casa et ogn’altra suppellettile, di cui reputino aver bisogno.
Altro vorrei dirti e direi, se vano non mi paresse lo sperare, che potesse tornare al pro la mia ragione. Onde, senz’altro, caramente ti abbraccio.
Cosmo.
Chiuse la lettera, sbuffando, e si recò di nuovo alla finestra. Capitan Sciaralla accorso, si levò il berretto e vi accolse la lettera.
— Bacio le mani a Vostra Eccellenza!
Un salto, e in sella.
— Di volo, Titina!
Bau! bau! bau! — i tre mastini, svegliati di soprassalto, gli corsero dietro un lungo tratto, per dargli a modo loro l’addio.
Don Cosmo rimase alla finestra: seguì con gli