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Pervenuto al pianerottolo, fece per bussare al modo convenuto, battendo cioè tre volte il saliscendi sul dente del nasello interno; ma, appena alzato il saliscendi, la porta sì aprì, e Mauro entrò esclamando:

— Aperta? Di nuovo aperta? L’avete aperta voi? — soggiunse poi dietro l’uscio della cucina, da cui per un istante s’era mostrata la testa incuffiata di donna Sara Alàimo, la casiera (cameriera, no!) di Valsanìa.

— Io? — gridò dall’interno donna Sara. — Mi alzo adesso, io!

E, sentendo che Mauro si allontanava, fece le corna con una mano e le scosse più volte in un gesto di dispetto.

Cameriera, no — lei: eh perbacco! nè di lui, nè di nessuno, lì. Aveva la ventola in mano, è vero; stava ad accendere il fuoco in cucina, ma era vera signora, di nascita e d’educazione, lei; lontana parente di Stefano Auriti, cognato dei Laurentano, e perciò, via, se vogliamo, parte della famiglia anche lei.

Stava lì a Valsanìa da molti anni a badare a don Cosmo, che forse non avrebbe mai sentito alcun bisogno di lei, se la sorella donna Caterina non gliel’avesse mandata da Girgenti, dove da vera signora, la poveretta, si moriva dignitosamente di fame.

A Valsanìa le giornate le passavano a strisciar la groppa a due gatti, debitamente castrati, che le andavano sempre dappresso a coda ritta; a dir corone di quindici poste, a labbreggiar senza fine altre preghiere; ma, a starla a sentire, tutto andava bene, solo perchè c’era lei; senza lei, addio ogni cosa! Se le messi imbiondivano, se gli alberi fruttificavano, se veniva a tempo la pioggia.... Insomma si dava l’aria di governare il mondo.