Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 35 — |
non dormiva più, le notti: stava a guardia della vigna, passeggiando poi lunghi filari, insieme coi tre mastini. Porse se n’era stato all’aperto anche con quella notte da lupi: n’era ben capace!
Sciaralla lo salutò umilmente, poi, indicando i cani, domandò:
— Posso scavalcare?
— Scavalca, — borbottò Mauro. — Che porti?
— Una lettera per don Cosmo, — rispose Sciaralla, smontando dalla giumenta.
E mentre si cercava nella tasca interna del cappotto, si sentiva addosso gli occhi di Mauro pieni d’ira e di scherno.
— Eccola. La manda Sua Eccellenza di gran fretta.
— Sta’ qui, — gl’intimò Mauro, prendendo la lettera. — E bada di non lasciare la giumenta.
Sciaralla sapeva che gli era proibito di salire a la villa, come se, con la sua uniforme, potesse sconsacrare quel vecchiume, quella rozza cascinaccia d’un sol piano: lui che veniva dagli splendori di Colimbètra, dove uno si poteva specchiare anche nei muri!
La proibizione non partiva certo da don Cosmo, ma dal Mortara stesso, il quale gli vietava financo di legare la giumenta a gli anelli confitti nell’aggetto della rustica scala a collo. Doveva tener le briglie in mano e star lì in piedi, all’aperto, ad aspettare, quasi fosse venuto per l’elemosina.
Appena Mauro si mosse, i tre cani s’accostarono pian piano a capitan Sciaralla e cominciarono a fiutarlo. Il poveretto, fermo e con l’anima sospesa, alzò gli occhi al Mortara che saliva la scala.
— Non vi sporcate il muso con codesti calzoni! — disse Mauro, dopo aver chiamato a sè i cani; e soggiunse, rivolto a Sciaralla: — Adesso ti mando un sorso di caffè, per farti rimettere dalla paura.